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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI

 

LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.

 


capitolo 2

NELLA  TODT

 

Dopo la breve esperienza da militare, in cui la parte più avventurosa fu quella del ritorno, il giovane Martino non poté certo adagiarsi ad una vita tranquilla. Tutto doveva ancora succedere. E il suo racconto continua incalzante. 

Io ero arrivato a casa, ma i Tedeschi erano un grosso problema perché erano già arrivati dappertutto e bisognava stare molto in guardia.
Andavano a cercare i giovani per portarli via, dove avevano bisogno per lavorare.
Io stavo sempre molto attento e non andavo certo tranquillamente per strada.  
Inoltre, a seguito della costituzione della Repubblica di Salò, eravamo ricercati anche dai fascisti, che ci volevano inquadrare nel nuovo Esercito Repubblichino.
Alle soglie dell’inverno, quel Pierino che era sfollato dai Comelli di Villa Sanuti, seppe della Todt, un’organizzazione paramilitare tedesca che reclutava i giovani, la gente valida, per lavorare nelle fortificazioni della Linea Gotica. Facevano delle grandi fosse anticarro, trincee, minavano i campi.
Allora quel giovane mi disse: mi hanno richiamato nei militari, ma io non voglio andare. C’è la possibilità di andare a lavorare nella Todt, qui nei paraggi, così ci danno il documento, con il quale non ci può far niente nessuno.

Così entrambi andammo proprio lì vicino, a Sperticano di Marzabotto, dove c’era un impresario,  certo Lenzi, che aveva il compito, d’accordo con i Tedeschi naturalmente, di reclutare i giovani e di mandarli su alla Futa, dove stavano lavorando per la Linea Gotica. Una parte di noi (tra cui anch’io) venne mandata a Montecarelli alla Futa e un’altra parte a Baragazza, perché la Linea Gotica passava da lì.  
I giovani che erano scappati dai militari erano praticamente tutti impiegati lì.
Perché non sapevamo ancora niente del movimento partigiano, inoltre si avvicinava l’inverno e non avremmo potuto  restare alla macchia.
Lassù, per dormire, ci avevano distribuito presso due case coloniche, una a poche centinaia di metri  dall’altra. Erano costruite da poco e ancora disabitate, così noi fummo ricoverati lì, dove c’erano diverse stanze, da basso facevano la cucina e al piano di sopra c’erano le nostre camere da letto.  
Lì c’erano tutti gli attrezzi che servivano: picconi, zappe, badili ecc. e lavoravamo in quei canaloni, che erano le grandi fosse anticarro.
Noi lavoravamo sodo, ma non ci ammazzavamo di fatica.
Loro non erano dei negrieri. Inoltre ci pagavano, anche se molto meno degli operai che lavoravano in officina.
I Tedeschi arrivavano lì qualche volta, ma noi eravamo comandati da degli Italiani. C’erano degli assistenti italiani, che a loro volta avevano dei tecnici tedeschi che tracciavano le linee da realizzare.

Ma c’era sempre il rischio che ad un certo momento ci caricassero su degli automezzi e ci portassero in Germania. C’era sempre questo terrore. Tanto è vero che io e un gruppo di miei amici alla sera non dormivamo più lì sul luogo di lavoro, ma andavamo in una casa disabitata più lontano. Prendevamo con noi una coperta e andavamo a dormire là e la mattina tornavamo lì per lavorare.
Ogni quindici giorni, di sabato, tornavamo a casa in permesso e il lunedì bisognava essere di nuovo lassù.
Durante questi permessi passavamo gran parte del tempo in viaggio. Andavamo a piedi da Montecarelli a Pian del Voglio.
Impiegavamo tre, quattro ore! A Pian del Voglio c’era la corriera che ci portava alla stazione di Sasso, per poi proseguire per Bologna.

Una volta arrivammo a Pian del Voglio la sera sul tardi, entrammo in un’osteria del luogo e lì trovammo Guercioli, il bigliettaio della corriera. Gli chiedemmo, come eravamo soliti fare, a che ora saremmo partiti l’indomani mattina: Guercioli, allora domattina quando si parte? E lui: domattina non si parte. E perché? Perché abbiamo il motore in panne.
Faceva ancora molto freddo. Ma da Pian del Voglio raggiungemmo ugualmente  Rioveggio a piedi, tanta era la voglia di tornare a casa. Quando fummo a Rioveggio, avemmo la fortuna di imbatterci in un camioncino, óun di chi camiunzéin cinéin
(uno di quelli piccoli).  

Martino e i compagni della Todt, durante un viaggio di permesso. Notare le valigie di cartone legate con lo spago. In ordine da sinistra a destra:
in piedi Gastone Gazzotti, Gino Coralli, Libero Boschieri, Lorenzo Monti, Martino Pedrolini, Arnaldo Gandolfi
in basso Renato Sandri, Ivo Lanzarini, Martino Righi, Pierino De Franceschi
al centro Ugo Comastri.

Eravamo in quattro, forse cinque, ci diede il passaggio e ci portò fino alla stazione di Sasso.
Fu proprio durante uno di questi permessi che un giorno arrivò lì a casa mia  un brigatista della Brigata Nera.  
Era uno della Fontana, in borghese e disse: io ho avuto ordine dal comando di venire a casa, vestirti in divisa, prelevarti e portarti a Sasso, perché tu risulti renitente alla leva.  Allora gli dissi: va bene io vengo a Sasso, ma non sono renitente alla leva, perché ho un documento che dimostra che lavoro per la Todt.  
Detto e fatto. Andai a Sasso e mi presentai al comando della Brigata, che si trovava dove ora c’è la biblioteca comunale: a i’éran dal fati fâz là dàintar
(c’erano certe facce là dentro)!  
Dissi: guardate che io sono in regola. E mostrai il documento della Todt.  
Mi risposero: va bàin
(va bene). La faccenda era stata chiarita.
Il capo era il capostazione di Sasso. Era il federale ed era il capo dei fascisti della repubblica di Salò.

L’atmosfera diventava sempre più scottante, con gli Italiani fascisti da una parte e i Tedeschi dall’altra.
Poi, pian piano, qualcuno cominciò ad indirizzarci, così quando venne la primavera scappammo quasi tutti da lassù.

 

 

 

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[Prologo[1-In guerra[2-Nella Todt]  [3-Nei partigiani]  [4-Da ferito]  [5-Sfollati e deportati]  [6-A Bologna]  [7-Da Ponte Ronca al carcere]  [8-La Liberazione]  [9-Il Dopoguerra] 

 

 

 

 

 

   

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