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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI

 

LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.

 

 

capitolo 3

NEI PARTIGIANI

 

Verso la fine di aprile del ‘44, cominciammo a metterci in contatto con il movimento partigiano.
Il primo contatto fu un certo Gino Coralli della Fontana. A sua volta lui era già in contatto con gente del movimento partigiano. Ci parlava del movimento, di andar via, di andar nel bosco, ecc.
Il nostro riferimento era Ezio Beccari, detto “al Ciôd”
(il Chiodo).
E poi ci fu l’incontro con Guido Cremonini.  
Ci conoscevamo fin da ragazzi, lui era più grande di me, perché era del ‘21. Mi disse: oh se hai intenzione di partire, io ho il mezzo per imbarcarti. 
E fu così che partii anch’io, insieme ad un gruppo di ragazzi, dei quali alcuni erano di quelli che erano stati con me nella Todt, altri che erano restati a casa, mezzo nascosti.  
Il nostro distretto partigiano era in località Ganzole, alla Torricella - una casetta con un fienile – dove abitava un vecchio antifascista, Rossi Ettore, che ci ospitò dentro la stalla.  Allora una mattina andai lì, dove ci radunammo in un grande branco, di circa un centinaio di persone.

La sera, naturalmente dopo il coprifuoco, partimmo tutti. Passammo la passerella di Vizzano, attraversammo la Porrettana e poi su che arrivammo alla Colombara,  sopra alla collina a destra, per andare verso Monte San Giovanni. Là sopra c’era una cascina da contadini, dove dormimmo un poco, per poi ripartire la sera seguente, perché viaggiavamo solo con il buio.  
Eravamo condotti da una guida che ci doveva portare a Montefiorino, dove c’era la Repubblica occupata dai partigiani e lì non entravano i Tedeschi.  
In quella zona gli Americani e gli Inglesi avevano fatto i lanci, con il paracadute, di grandi bidoni contenenti armi, munizioni, ma anche viveri, vestiario e medicine. I partigiani, a seguito di contatti radio, facevano tre fuochi in una zona abbastanza pianeggiante, così gli aerei, arrivando di notte, potevano individuare la zona dove fare i lanci.

Viaggiavamo a piedi in fila indiana tutta la notte, senza alcuna luce, sempre per sentieri attraverso le montagne, condotti da guide che dovevano conoscere bene le strade.  
Una guida ci portava in un certo punto e poi da lì un’altra le dava il cambio. Comunque, dopo alcune notti così, ci accorgemmo che non si procedeva. Sembrava che girassimo sempre attorno allo stesso punto.  
Allora cominciammo ad innervosirci con la guida, lasciandoci sfuggire anche frasi poco simpatiche.
Quindi decidemmo di viaggiare di giorno. Per vedere se riuscivamo a fare più strada. Mangiavamo quello che potevamo, ci fermavamo presso i diversi contadini che trovavamo lungo il percorso, distribuendoci tra le case vicine. Ricordo queste donne, poverette, che facevano delle grandi infornate di pane, che poi noi mangiavamo ancora rovente, accompagnato da piccoli pezzi di pancetta.

Quando fummo nei pressi di Zocca, ci accingemmo ad attraversare la strada principale, azione molto rischiosa, se fatta di giorno.  Siamo nel bel mezzo dell’attraversata, con gli uomini un po’ di qua e un po’ di là dalla strada e sentiamo arrivare una camionetta, che comincia a suonare forte con una campana. E noi, con il cuore in gola: i Tudesc (i Tedeschi)!
Era giorno ed eravamo disarmati: appena due o tre fucili per un centinaio di uomini. Io riuscii ad attraversare la strada, ma una parte di noi era rimasta dall’altra parte.
Ci fecero una ”sinfonia”, ma una fàta sinfunî
(una sinfonia tanto grande): trrr, trrr! Fu terribile. Ci sembrò che ci scaricassero addosso tutte le armi!

Ma nessuno di noi rimase colpito.  
Certo, i Tedeschi si erano accorti che c’erano dei giovani, ma non sapevano che stavamo andando a Montefiorino e non sapevano che eravamo disarmati. Forse avevano sparato in aria a casaccio.  
Quando se ne furono andati, il resto del gruppo potè finalmente attraversare la strada per riunirsi agli altri.  
Però, in seguito al quel fatto lì, i miei compagni cominciarono a dire: vuoi dire che la guida non sapesse che quello era un brutto posto per passare? Infatti, per attraversare la strada nella nostra situazione, bisognava essere almeno in un rettilineo, per poter vedere se arrivava qualcuno, mentre invece lì eravamo in curva. Cominciammo anche a minacciare di ucciderlo. Tanto che lò al taié la làza, al sgumbré
(lui tagliò la corda e se ne andò via). E così perdemmo la guida.

Senza guida chi sapeva andare a Montefiorino? Allora ci fu lo sbandamento e il gruppo si divise: una parte tentò comunque di raggiungere Montefiorino e, non so come, sapemmo poi che ci riuscirono. Si aggregarono ad un altro gruppo partigiano che avevamo incontrato e che accettava solo persone armate, così presero solo quelli con il moschetto.
Allora noi di Sasso, in un gruppetto di una ventina, tornammo indietro.
Io tornai a casa mia, però dovevo rimanere nascosto.
Di notte dormivo nella mia stanza, però la mattina presto prendevo un panno sotto il braccio, un libro da leggere, passavo il fiume e poi su per il sentiero che andava só a Mòunb
êc
(sul monte Baco, tra Sasso e Marzabotto).

Guido Cremonini,
il vice-Comandante
 

Un bel giorno, ero, come al solito, steso sul panno, accanto al sentiero e mi leggevo un librino. Sento parlare: guèrda chi i’è (guarda chi c’è)!  
Erano proprio Guido Cremonini con Giorgio Gardini, che erano stati giù alla Barleda, podere ai piedi di Monte Baco, a prendere dell’acqua fresca con delle borracce, da portare su, dove c’era la loro squadra di venticinque partigiani.
Da Campiuno di Badolo, nei pressi di Monte Adone, si erano spostati lì sul cocuzzolo di Monte Baco.
Sorpresi, i miei vecchi compagni partigiani, mi chiesero: come mai sei qui? Non dovevi essere a Montefiorino? Raccontai tutta la storia e finii col chiedere di andare con loro.
Guido mi rispose che non sapeva cosa dire, perché il capo non era lui. Allora il capo era Bruno Bregolini. Però ritenne che la cosa si poteva fare.
Così venni subito ingaggiato. Mi dissero: domattina presto, quando lasci casa tua,  passa da Paganino, dove troverai Peppino Cedrati - faceva il fornaio – che ti consegnerà un sacco di pane, che tu dovrai portare qui sul Monte Baco.
Accettai subito l’incarico, anche se con un po’ di preoccupazione per il carico da portare, perché, sebbene avessi poco nello zaino, dovevo pur sempre trasportare anche una coperta pesante, perché la notte faceva ancora freddo.

Peppino il fornaio mi diede il sacco del pane, che era ancora bollente. Mi metto il sacco in spalla e poi vado giù in fondo al fiume Reno, passo il fiume e comincio a salire. La salita era molto ripida e arrivai sulla vetta del monte, che ero fradicio di sudore.  
Inoltre durante il giorno faceva già caldo, perché eravamo nei primi di giugno del ‘44.
Ricordo che mangiammo veramente di gusto. I ragazzi lassù avevano un po’ di formaggio che avevano trovato da qualche contadino, o forse proprietario terriero, perché gli approvvigionamenti allora cercavamo di andarli a fare da qualche signorotto della zona.
Anche se qualcuno a volte recalcitrava un poco, comunque in genere la gente del luogo era molto disponibile verso i partigiani e non solo quando si trovavano di fronte dei ragazzi armati di fucile.
D’altronde, se anche in qualche raro caso, chi ci ospitava avesse voluto avvisare i Tedeschi, sentivamo di non correre alcun rischio, perché non ci fermavamo mai nello stesso posto e nessuno sapeva dove trovarci.  
Per esempio, quando eravamo sopra il Monte Baco, il “colpo economico”, cioè il rifornimento di cibo ed indumenti, lo facevamo a Lama di Reno, dove nessuno sapeva dove stavamo.

Rimanemmo circa un mese lì sul Monte Baco e poi ci recammo sul Monte Adone, dove erano già stati in precedenza i miei amici, nella casa Campiuno, abitata allora dalla famiglia di Eugenio Stefanelli, partigiano come noi.  
Di giorno stavamo nel bosco e la notte, se faceva brutto tempo, dormivamo in una grotta. In quella stessa grotta, per alcuni anni dopo la guerra, siccome la casa era crollata, vissero i componenti della famiglia che successivamente si stabilì in quel podere.

Qui avvenne un fatto notevole.
Una squadriglia di apparecchi alleati attraversò lo spazio aereo tra Monzuno e Cà di Bocchino, dove c’era una batteria antiaerea tedesca, che colpì un caccia con pilota e due militari.  
Il pilota ordinò ai due di buttarsi con il paracadute, per poter proseguire alleggerito nel peso. Un proiettile colpì uno dei due paracadutisti, che quindi precipitò a candela, sfracellandosi al suolo.  L’altro, invece, riuscì ad atterrare in un boschetto vicino, nei pressi di Monterumici.  
Guido Cremonini con un altro compagno partigiano di nome Dario, per caso, si trovarono lì nei paraggi.
Erano andati in quella zona per contrattare un vitello e videro tutto, sentirono sparare, videro aprirsi il paracadute, videro tutta la scena e si avvicinarono per soccorrere il militare alleato.
Era Bob, un Sudafricano bianco. Aveva delle schegge conficcate nelle gambe, era messo male.

Allora lo portarono nel bosco fitto, e gli dissero: tu rimanere qui. Gli fecero capire, in qualche maniera, perché lui non parlava per niente l’italiano: noi questa sera ti veniamo a prendere.  
Ma di lì a poco arrivò una pattuglia tedesca, perché avevano visto che l’aviatore era atterrato lì.
I due compagni videro dal bosco i Tedeschi avvicinarsi alla casa colonica del podere e chiedere all’azdàura (reggitrice) se l’aveva visto e lei: sì sì l’ho visto, ma è andato via.
Loro cercarono e cercarono inutilmente, perché nel frattempo Guido e Dario l’avevano nascosto tanto bene in mezzo al bosco, che non riuscirono a scovarlo.

I due allora tornarono da noi alla base, ci raccontarono il fatto, che erano scappati via in fretta, quando videro la pattuglia dei tedeschi armati di mitra, che insistevano nella ricerca. Bob lo avrebbero fatto prigioniero, ma i partigiani li ammazzavano!
La sera tornammo là a prenderlo. Era ancora nascosto dove l’avevano lasciato. Mi ricordo che andammo con un paio di buoi che trainavano una slitta, che in montagna usavano molto le slitte, anziché i carri o i birocci.  
Lo portammo nella casa padronale del podere Vallenera di Badolo e chiamammo su il dottore a curare le ferite, che si erano già un po’ infettate.
Il medico era Gino Nucci, fratello di quel Pino Nucci, che divenne il comandante della brigata Santa Justa della zona di Medelana e Rasiglio.  
Gino era il dottore di condotta di Sasso e collaborava con i partigiani, quando c’erano dei feriti, era lui che li andava a curare.
Bob, una volta guarito, non volle restare con noi, ma volle passare il fronte per raggiungere le forze alleate.

Dopo qualche tempo Bregolini, il nostro comandante, andò ad un incontro nella zona di Pianoro, durante il quale si parlò della costituzione della 62esima Brigata Garibaldi.
Alcuni giorni dopo, già in estate inoltrata, fummo raggiunti da una squadra di ragazzi della Lama di Reno. C’era anche Antonio Rossi che ci raccontò di essere stato a Montepastore, dove aveva incontrato il Lupo (Musolesi).
Così una notte partimmo tutti assieme per andare a formare una brigata dalle parti di Monterenzio ai piedi del Monte delle Formiche, nella vallata del torrente Zena.
Là eravamo disseminati in vari gruppi nelle case coloniche della zona, dove dormivamo nei fienili.  
Purtroppo, nel giro di pochi giorni, cominciarono ad arrivare in zona le Brigate Nere.  
I Repubblichini arrivarono fino in fondo al torrente Zena e cominciarono a sparare con le mitraglie. E noi eravamo là pronti ad aspettarli.  
Ma non salirono mai da noi.  
Fecero solo un gran fracasso giù in fondo, senza riuscire a venir su, perché se si fossero avvicinati, noi li avremmo visti e colpiti facilmente.

Là dove eravamo accampati, avevamo un somarello che usavamo per andare a prendere la carne e il pane alla sede del Comando partigiano, distante alcuni chilometri. Ci turnavamo in questo compito e quando toccò a me dissi: io non la conosco mica la strada.  
Tu non ci pensare, mi risposero i compagni, salta a cavallo del somarello e ti porta lui.
Allora io andai giù con ‘sto somarello: com’era bravo! Per dei sentieri tortuosi! Sopra a dei burroni!  
Mi portò laggiù, mi diedero la razione di viveri che mi dovevano, la caricai sul somaro e, naturalmente, al ritorno io andai a piedi, per non sovraccaricare la povera bestia.
Ad un certo punto, quando siamo su un’altura, a metà strada fra il luogo del Comando e la casa dove eravamo alloggiati, comincio a sentire sparare raffiche in continuazione: erano ancora i fascisti che volevano venire su a stanarci.
Fu un’attraversata poco simpatica, perché tra l’altro io avevo soltanto una pistola. E il somarello. Con il quale mi feci scudo, nascondendomi dietro il suo fianco! Pensavo: mi dispiace per lui, però… 
Anche quella volta i fascisti arrivarono solo fino a Zena, da dove sparavano su a casaccio e non ebbero il coraggio di salire.
E il somaro non si spaventò. Era buono oltre che bravo!  
A volte era buffo. Quando arrivava vicino alla stalla, accelerava il passo, perché era smanioso di entrare e, se trovava la porta aperta, si infilava dentro di volata.
Per fortuna a me non capitò mai, ma al povero Taddeo Zaccaria sì. Quando toccò a lui andare a fare la spesa, arrivò che c’era la porta aperta, il somaro partì, allora lui svelto afferrò l’architrave della stalla e rimase lì appeso, con le gambe a penzoloni e il somaro che correva dentro!

Facevamo dei turni di notte di quattro ore di guardia. Era tremendo il turno da mezzanotte alle 4: non si riusciva a stare svegli, ma bisognava. Allora io mi alzavo in piedi, mi muovevo. Eravamo sempre in due, anche se, mentre uno rimaneva nel punto assegnato, l’altro e un componente di un’altra squadra, facevano una pattuglia che andava avanti.
Comunque rimanemmo poco là a Zena, forse una ventina di giorni, perché era una zona che non ci convinceva.  
Quell’episodio dei fascisti che ci avevano sparato contro era stato troppo, pure solo per spaventarci.  
Così, ad un certo punto, si era in agosto, decidemmo di tornare sul Monte Adone, con la nostra squadra di venticinque, composta dal gruppo di Sasso più una parte di quello della Lama. Era la squadra comandata da Bruno Bregolini e il vice comandante era praticamente Guido Cremonini.
Gli altri restarono lì a Zena, dove, successivamente, insieme ai gruppi che venivano dalla città di Bologna, confluirono nella 62 esima Garibaldi - comandata da Mariano - che si trasferì poi ai Casoni di Romagna.

 

Ci mettemmo in cammino, sempre attraverso i boschi.  
Quando arrivammo a Livergnano, proprio dove son nato io, in località Ospitale, c’è una piccola vallata e lì dovevamo uscire dalla macchia per attraversare la strada della Futa, che era un poco rialzata rispetto al terreno circostante. Dopo saremmo arrivati giù in fondo al Savena per poi montare verso Brento e sul monte Adone.  
Era notte. Ma uscire dalla macchia è sempre un rischio.
E c’era proprio una colonna militare tedesca che transitava, così noi cercammo di passare tra un camion e l’altro per attraversare.  
Ma ci videro e incominciarono a sparare, e noi rispondemmo al fuoco! Da una parte e dall’altra della strada, ci fu una grande sparatoria.
Anche quella volta il nostro gruppo ne uscì indenne.
Quando potemmo passare, raggiungemmo finalmente Monte Adone.

 

 

 

 

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