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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI

 

LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.

 

 

capitolo 4

DA FERITO

 

Rimanemmo lì qualche tempo e poi ci spostammo ancora e ci stabilimmo di nuovo dalle parti del monte Baco.
Eravamo accampati non proprio sul monte, bensì in una base in mezzo al bosco nella zona di S. Silvestro. Lì dormivamo all’addiaccio.
E lì ci arrivarono addosso.  
Il nostro accampamento era rivolto verso il fiume Reno.  
Fu di giorno, stranamente.  
I caccia avevano cominciato a bombardare Marzabotto. Allora parte dei ragazzi si trasferì sopra ad un costone per vedere lo spettacolo – se così si può definire – delle bombe che si staccavano dagli aerei.
Io invece, insieme a Giorgio Gardini, Orazio Baia e un polacco, Ugo, che si era unito a noi, rimanemmo lì tranquilli, lontani dal rumore assordante del bombardamento in corso.
Ad un certo punto il Polacco dice: io sentire parlare tedesco. Noi ci mettemmo in ascolto ma non sentimmo niente. Allora pensammo che fosse la gran paura che aveva, perché se lo prendevano lo facevano fuori, visto che era un prigioniero scappato dai Tedeschi.  
Del resto del coraggio da vendere non ne aveva mica nessuno eh!
Per cui non demmo peso alle parole di Ugo.
A torto, perché, un attimo dopo, Orazio, che era un po’ scostato da noi, esclamò: i tudésc
(i tedeschi)! Come disse così, cominciarono a sparare.  
Li avevamo a pochi metri da noi. Erano SS.
Io mi voltai per afferrare il fucile che avevo accanto, ma venni subito colpito, e non ebbi più la forza di far niente!
Scaricarono le armi su di noi e fuggirono.
Era il 14 settembre 1944, tra le due e le tre di pomeriggio.
Non si è mai capito perché arrivarono lì, le SS, che non avevano l’abitudine di inoltrarsi nel bosco, dove temevano di più i partigiani.  
Avevano il comando a Sirano, dove adesso c’è il Piccolo Paradiso, eppure arrivarono proprio lì!
Mi sono anche sempre chiesto se sapevano che eravamo lassù e che in quel momento ci eravamo divisi.
Appena fui colpito, mi lanciai giù di traverso nel bosco. Sentivo il braccio che mi sanguinava e ancora non m’ero accorto della ferita più grave.
Gardini mi raggiunse subito. Gli dico: Giorgio, a sòun fré
(sono ferito)!
Lui vide il mio braccio sanguinante e si accorse che perdevo molto sangue, allora si strappò via prontamente i cordoni delle braghe alla zuava e mi legò il braccio.
Però ad un certo punto sentii che non riuscivo a respirare.
Dicevo: mé a fâg fadìga a respiré
(fatico a respirare), Giorgio. Ed emettevo un rantolo.  Giorgio mi guardò bene ed esclamò: ma se hai una ferita anche nella schiena! La mia maglia era bucata e dal foro scorreva il sangue copioso lungo la schiena!
La pallottola era rimasta incastrata tra pleura e polmone e non uscì più da lì.
Nel frattempo, quei ragazzi che si erano allontanati per assistere al bombardamento sopra Marzabotto, avevano sentito sparare, ma non sapevano cosa fare perché erano tutti disarmati, che avevano lasciato le armi nell’accampamento, dal quale si erano allontanati alcune decine di metri.
Quando tutto tacque, tornarono alla base e videro cos’era successo.

Da quel momento i miei compagni non cessarono mai di prendersi cura di me. Improvvisarono una barella con due sacchi di tela juta per il grano. Tagliarono il fondo dei sacchi, infilarono due bastoni e mi trasportarono così, la sera stessa, nel podere di Stanzano di Sotto, presso la casa colonica della famiglia Bernardi. 
Contemporaneamente partì una staffetta per andare a prendere il medico. Che era sempre quel dottor Gino Nucci, citato prima, che mi medicò le ferite e mi fasciò il braccio.  Aveva portato con sé dei ferri per vedere se riusciva a togliermi la pallottola dalla schiena.
Ricordo che mi entrò con un ferro così lungo! Però non riuscì a far nulla perché la pallottola era andata troppo in profondità, ma né lui né altri potevano saperlo. Si è saputo solo con le radiografie che mi han poi fatto dopo la guerra, dove realmente si era conficcata.
Io non sentivo dolore in quella posizione. Ma mi era venuta la febbre alta. E poi faticavo sempre a respirare.
Sentii il medico dire ai miei compagni: speriamo che se la cavi. 

Allora, in attesa che si calmassero un po’ le acque, mi portarono alla Lama di Reno, presso una famiglia. Rimasi lì quella notte e, siccome il giorno dopo era tutto tranquillo, la notte seguente mi portarono in uno di quei rifugi che, i ragazzi del luogo, avevano ricavato nel monte sovrastante la Lama. 
Dopo alcuni giorni, Cremonini con il suo gruppo, preferendo spostarsi verso le zone di Medelana,  passò il fiume e andò in Dola, località delle Lagune di Sasso Marconi. 
Prima di partire mi disse: tu rimani qui con gli altri della Lama. Erano i ragazzi dello stesso gruppo con cui eravamo andati nella zona di Monte delle Formiche. 
Quindi io rimasi là, perché fra l’altro si sentiva già il tuono del cannone alleato. 
C’era chi diceva: massimo cinque giorni abbiamo gli alleati qui, siamo liberi. 
Purtroppo queste supposizioni si rivelarono poi molto lontane dalla realtà. 
Noi avevamo i nervi a fior di pelle: qualsiasi rumore sospetto ci metteva in allarme. 
Come dimostra l’episodio che ci capitò, appena sistemati in quel rifugio. 
Sentimmo sparare dalla cima del monte, erano spari grossi. 
Allora pensammo subito: siamo attaccati dai Tedeschi! Tutti si precipitano fuori dai rifugi con le armi per andare a vedere cosa sta succedendo. 
Ed io là dentro c’a tiréva al fià pra’l bisâc
(che respiravo attraverso le tasche), rimasi là come un salame, perché non mi muovevo, avevo la febbre a 40. 
Quando i miei compagni arrivarono in cima la monte, rimasero esterrefatti nel vedere la scena che si presentò davanti ai loro occhi: i ragazzini della Lama, divertiti, davanti ad un fuoco, in cui lanciavano dei proiettili che esplodevano facendo tutto quel rumore. 
Lassù, durante l’estate, era caduto un aereo alleato, abbattuto dai Tedeschi. Così i ragazzini, appena poterono, andarono a recuperare i proiettili e accesero un fuoco per farli esplodere. 
Anche nelle situazioni più tragiche, i ragazzi trovano sempre qualcosa da fare per divertimento!  

Ma in quell’occasione successe un altro fatto allarmante.
In quei giorni i miei compagni avevano recuperato un Tedesco che si chiamava Willi. L’avevano visto gironzolare nei dintorni, allora gli si erano avvicinati per chiedere cosa stesse cercando. Io volere andare nei partigiani. Allora provarono ad interrogarlo attraverso Max, un Austriaco che era con noi nella nostra squadra e lui ci rassicurò: sì è buono. 
Ma Willi non resse alla finta sparatoria dei ragazzini della Lama, forse pensò che eravamo attaccati e si mise in fuga. 
Allora Luciano dal Cutzà
(del podere Codicè) della Lama, lo rincorse gridando: Willi fermati, fermati! E lui: no! 
Riuscì a raggiungere la Porrettana, fermare un camion tedesco, montò su e via che andò.  Allora noi subito pensammo: è una spia. 

A causa di questo episodio, ritenemmo troppo rischioso rimanere oltre in quella zona.  Allora tutti via da lì, per evitare il rastrellamento. 
E andammo a finire in un rifugio in un canalone nei pressi di Campione di Canovella di Marzabotto. 
Ma, siccome io avevo sempre una gran febbre, l’Emma, l’azdàura della casa colonica di Campione disse: purtél bàin in cà c’al ragàz lé che almàinc a i gn’é brisa l’umdità
(portatelo in casa quel ragazzo che almeno non c’è umidità). Perché pioveva. 
In quei giorni pioveva sempre. 
Allora mi portarono lì nella casa colonica, dove abitava una famiglia, con cui, per caso, avevo un lontano legame di parentela, perché la sorella dell’azdaura era una mia zia acquisita. 
L’Emma, visto che non avevano altro posto dove mettere un ferito febbricitante, mi mise a letto con il figlio più piccolo Dino, allora poco più che dodicenne. 
Dormii con lui nello stesso letto per circa una settimana e ancora oggi, ormai vecchi, ci scherziamo sopra.

Ma un fatto tira l’altro e non ci si può mai fermare. 
Successe che da Dola, la squadra di Cremonini riuscì a recuperare del tabacco,  allora Guido, che era un giusto, disse: bisògna purtè la raziòun anc’a Martino, parché Martino l’é int la nostra squedra
(bisogna portare la sua razione anche a Martino, che è della nostra squadra)
Fu così che Zaccaria Taddeo, lo stesso che, al Monte delle Formiche, era rimasto appeso alla trave della stalla dove si infilava il somarello di corsa, partì a piedi da Dola per portarmi la mia razione di sigarette, lì in questa casa di Campione. 
Non so come fece a sapere che ero lì. Forse fu l’efficienza della rete informativa tra i gruppi partigiani, nonostante la necessità di muoversi in segretezza. 
Quel giorno Zaccaria, dopo avermi consegnato le sigarette, nella camera da letto dove giacevo febbricitante, affacciandosi alla finestra, esclamò: eh Martéin a i é Funséin c’al va a cóiar a gl’ôv
(Martino, c’è Fonsino che va a raccogliere le uova)! Ti ricordi di Fonsino che raccoglieva le uova per venderle? Vuoi mandargli a dire qualcosa a tuo padre. Se hai voglia di parlare con lui…  
Fonsino era l’ovarolo. Era senza un braccio e girava per le case coloniche, a raccogliere le uova, quindi aveva facilità di comunicazione fra case anche molto distanti fra loro. 
Allora io tutto emozionato: sìì, vai a dire a mio padre se mi viene a trovare! 
Come mia sorella Ede mi raccontò successivamente, una mattina nostro padre disse a lei poco più che ragazzina: guérna bàin al bîsti che mé a vâg a vàdar che i m’àin dét c’a i é Martino in t’na cà só a Marzabòt, a Canvéla (governa tu le bestie, che io vado a vedere Martino che mi hanno detto essere in una casa su a Marzabotto, a Canovella)… 
Fu un errore, perché quando mio padre, poveretto, puntualmente arrivò per vedermi, io non c’ero già più.  

La sera prima mi avevano portato su in brigata Stella Rossa. E vennero anche Bruno e Marcello, i fratelli maggiori di Dino. 
L’Emma l’azdàura disse a mio padre: ah i l’ain purtè só parché là só a i é al dutour
(l’hanno portato lassù perché là c’è il dottore)… 
Il dottore Gino Nucci non poteva più a venirmi a curare perché ad un certo momento disse che era pedinato e probabilmente era vero! Ci consigliò di andare su in Brigata Stella Rossa, che era di stanza nelle località di Monte Sole, dove avrei trovato l’assistenza di un medico. 
E così, mi caricarono su un carro, trainato da due bestie (quella era la nostra ambulanza!) e mi portarono a Caprara, nel paesino con la bottega con l’osteria. Effettivamente in brigata trovammo il medico. Era un giovane professionista alle prime armi. Poveretto, era sempre lì che mi curava, mi auscultava, mi faceva delle iniezioni. Faceva tutto il possibile. Ma la febbre non calava. 
Allora non c’era ancora la penicillina, quindi si potevano usare solo dei sulfamidici.
Una sera venne il Lupo a cavallo a far visita ai feriti. Fu molto asciutto, come era sua abitudine, ma noi fummo contenti che fosse venuto.  

Di lì a n
eanche una settimana, una mattina nera, che veniva giù quella pioggerellina fitta, proprio quella che bagna, era il 29 settembre del ’44, arriva lì una staffetta: ragàz bisògna sgumbrèr, andé in vàta a Mòunsòul, c’a i é i tudesc chi véinan só da tóti al pèrt, chi brùsan tóti al cà, i màzan, i màzan, i spèran
(ragazzi bisogna sgombrare, andare in cima al monte Sole, che ci sono i Tedeschi che vengono su da tutte le parti, che bruciano tutte le case, ammazzano, ammazzano, sparano)… 
Allora bisogna sgombrare e andare sulla cima di Monte Sole. 
A Martino tocca alzarsi dal suo giaciglio di ferito. 
Avevo un “attendente”, era un partigiano che mi doveva assistere. Allora mi aiutò ad infilarmi le scarpe e ci avviammo per salire sul monte Sole. Da Caprara, si arriva sulla sella e poi si sale a destra. 
Quando arrivammo ai piedi della montagna, il comandante (allora eravamo comandati da Otello Fanti di Monzuno, laureato in medicina) mi disse: ti carichiamo sul cavallo. 
Era un cavallo bianco! 
E io: no, no. Non me la sentivo proprio di salire su un cavallo bianco, che avrebbe costituito un ottimo bersaglio per i Tedeschi in arrivo. 
Ero sfinito, non mangiavo, avevo sempre la febbre alta, però dissi:  preferisco andare su a piedi, se qualcuno mi sorregge. 
Proprio in quel frangente, quel compagno partigiano che doveva star sempre con me, che aveva il mio zaino, con dentro le sigarette, un po’ di roba per il cambio e una coperta (era quella che faceva un po’ di volume), sparì con tutto, sparì il mio assistente e sparì il mio zaino. 
Forse, sentendo quello che stava succedendo, se l’era vista brutta e preferì fare per conto proprio. 
Quello che fece era considerato gravissimo, da passare per le armi! Lo trovarono dopo la guerra: i dén ‘na carga ed bôt
(gli diedero una carica di botte)…Lo “strisciarono” forte, come mi dissero poi i ragazzi della Lama. Poteva anche andargli peggio. 
A quel punto, altri due compagni tra i più robusti, Luciano e Loris, uno di qua, uno di là, mi portarono su di peso. Io avevo una coperta in testa, per ripararmi un po’ dall’acqua. 
Lassù in cima al monte Sole pioveva sempre, laggiù sparavano, io ero senza forze, ma non ero solo, perché lassù era fitto così. Avevo i miei amici: i ragazzi della Lama.

Dalla cima di Monte Sole assistemmo all’immane tragedia: le case bruciavano tutte a vista d’occhio! 
Per di più i Tedeschi cominciarono a sparare con i mortai verso di noi. Mi ricordo che mi scoppiò un mortaio tanto vicino, che mi coprì di terra. 
Le SS cercavano di salire, ma appena puntavano su, i miei compagni, che erano tutti appostati circa a metà del monte, li placcavano con le armi. 
Io ero rimasto più in alto sul monte. Si piazzò vicino a me un partigiano che veniva dalla Toscana. Aveva un mitragliatore e sparava verso una stradina che saliva da Cerpiano dove c’erano delle pattuglie di Tedeschi che passavano di là, a gruppetti di sette, otto.
Era distante però il fucile mitragliatore spara lontano. Si appoggiava ad un cavalletto e gli occorreva l’aiuto di uno che gli tenesse i nastri delle cartucce. Allora io mi adoprai come potei per dare una mano. 
Date le mie condizioni, stavo sempre a terra e udivo le sue parole: accidenti ce n’è un altro, ora c’è un gruppo, ora sparo una raffica… a fatica mi alzai e vidi che quando lui sparava quelli laggiù saltavano, facevano delle capriole! Si buttavano giù, forse qualcuno rimase ferito, forse ucciso, chi lo sa, a quella distanza lì…oppure si sdraiavano per terra per proteggersi dalle mitragliate, chissà. 
Rimasi tutto il giorno con quel Toscano, perché i miei compagni erano tutti a combattere più in basso. 
E intanto continuavano senza tregua gli scoppi del mortaio…che è tremendo! Pensavo: se insistono a sparare con i mortai qui ci fanno fuori tutti. 
Spararono diversi colpi. Qualcuno di noi rimase ferito con qualche scheggia, però di morti io non ho sentito che ce ne furono. 
Poi finalmente cessarono di sparare con i mortai.

Fu allora che cominciammo a sentire gli urli (che ancora mi risuonano nelle orecchie) della gente, delle donne, dei vecchi, tutti quelli che si erano rifugiati dentro la chiesa di Casaglia. Si erano rifugiati lì dentro credendo di essere protetti, nella chiesa, il prete che diceva il rosario …era piena di gente…arrivarono i Tedeschi…fuori tutti, compreso il prete, li portarono…una strage! 
Da lassù non si poteva vedere la chiesa, invece, da un certo punto, si vede il cimitero e lì li vedemmo arrivare. Li portarono là dentro, poi cominciarono a sparare…ma era sempre un urlo…  
C’erano con noi dei partigiani che abitavano lì. Erano disperati, gli occhi pieni di angoscia, perché sapevano che avevano massacrato i loro genitori. Ricordo fra i tanti un certo Luccarini Antonio, poverino, che gli avevano ammazzato i genitori e tutti i suoi fratellini.  

Non ci saremmo mai aspettati l’orrendo crimine che si stava svolgendo sotto i nostri occhi. Non avevano ancora fatto di quelle cose lì. Quella lì fu proprio il culmine!
Certo, Reder aveva la fama di essere un carnefice nella zon
a della Toscana e, nel venire su con il fronte, anche lì aveva fatto delle cose …non per niente lo portarono lì a combattere, a estirpare i partigiani. 
Ah io quando cominciai a sentire trucidare tutta questa gente, proprio non sapevo cosa pensare…le case bruciavano tutte quante…la gente l’ammazzavano in quella man
iera lì…noi eravamo rimasti là sopra...  

Come era già avvenuto in altri rastrellamenti, di giorno vanno su nelle montagne a cercare di stanare i pa
rtigiani, e la notte si ritirano a valle. 
Così fu anche lì. 
Quella sera noi non sapevamo ancora che il Lupo era morto, ma non c’era e quindi pensavamo che qualcosa di
grave gli fosse accaduto.
Tutto lasciava supporre che fosse caduto. Allora un partigiano ex ufficiale dell’esercito, un certo Fanti, che non ho mai più rivisto dopo, prese il comando.
Cominciò a radunare tutti i partigiani fra Monte Sole e Monte Caprara e ci condusse dietro Monte Salvaro, dentro a un canalone, sopr
attutto per nasconderci, perché non avevamo più tante munizioni ormai, dato che erano state consumate durante la giornata per tener a bada i Tedeschi. 
Eravamo tutti là dentro a quel canalone e io stavo così male, per quello che avevo visto e udito, oltre ad essere ormai allo stremo delle forze, fradicio per la pioggia insistente e quella posizione imbucata non mi piaceva affatto.  Ad un certo punto sentiamo tante schioppettate provenire dall’alto, allora, con i nervi a fior di pelle, subito pensiamo: siamo attaccati, si sono accorti che siamo qui e ci vengono addosso. 
Se fossero arrivati lì sopra al canalone, gli bastavano alcu
ne bombe a mano e ci facevano fuori tutti. I miei compagni subito si appostarono con quel po’ che avevano ancora, pronti a combattere come potevano. 
Di punto in bianco, tutto cessò. E di lì a poco sentimmo sfrascare il bosco e vedemmo arrivare una pattuglia dei nostri. 
Erano andati a fare un giro di perlustrazione su quelle mulattiere lì nei dintorni, quando, in una curva, si scontrarono con una pattuglia tedesca. Ma loro furono più svelti
e fecero fuori tutti. 
Noi, ignari in quel canalone, avevamo preso un bello spavento, nel sentire tutti quegli spari. 

Sempre quella sera del 29 settembre, mi s
i avvicinò il comandante e mi disse: abbiamo deciso che tutti i feriti li facciamo passare di là dal fronte (che era a Lagaro di Castiglione dei Pepoli, non molto lontano da lì), perché non sappiamo più come fare, che non abbiamo più le case dove poterci appoggiare, per mangiare e tutto il resto. 
Io gli risposi che non me la sentivo di passare il fronte perché ero certo di non averne la forza. Per passare il fronte bisogna essere svelti, bisogna correre per attraversare le 2 linee: i Tedeschi qua e gli Alleati di là. 
Lui capì che effettivamente sarebbe stato impossibile per me, ma molti, quelli feriti lievi, passarono il fronte e furono poi ricoverati a Firenze, nell’ospedale militare.  Così io tornai indietro insieme ai miei amici e compagni di Lama di Reno, un gruppo di una ventina. Pian piano arrivammo su nei monti della Lama, dove quei ragazzi avevano ricavato dei piccoli rifugi nella montagna. Ci si poteva stare al massimo in quattro in ogn
uno.  Adesso non ci saranno più quei rifugi. Saranno crollati. Ci si andava passando dai Faiè, son quelle case lassù che si vedono dalla strada. Lì attorno ci sono i poderi di Brolo, Campo Fedele e la Casetta. 

Quindi ci distribuimmo in questi rifugi. I ragazzi della La
ma avevano le famiglie giù in paese, così riuscivano a racimolare qualcosa da mangiare. 
E ricominciò a piovere e piovere. Io avevo sempre quella coperta, che me l’asciugai addosso. 
Era il 30 settembre 1944.

 

 

 

 

 

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