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Categoria: Testimonianza massacro
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Salvina Astrali - Pian di Venola 25 febbraio 2010

 

 

Caprara di Sopra, foto di Luigi Fantini del 16 Luglio 1939. Pubblicata nel libro "Antichi Edifici della Montagna Bolognese.

Io sono nata al Palazzo di San Martino. Da lì ci spostammo, ma non so perchè in quanto ero appena nata. Il giorno che sono nata io lì a Palazzo è morta mia nonna, nella stessa ora. La stessa ora che io nascevo la nonna moriva. Infatti una volta il Comune aveva un quadro grande così per me, che poi è andato distrutto con la guerra.

Dal Palazzo mio babbo si trasferì a Salgastre. Sai dov’è ?   E’ lì sopra alla Quercia, dalla parte di là. E’ più alto dell’Agriturismo. E’ un podere da contadino.

Eravamo una famiglia composta dalla nonna, il nonno, sette fratelli e i genitori, in più mia mamma aveva preso anche una bastardina. Mia sorella, la povera Ida, era a servizio dai Zanini di casa Serena.

Io non so se il motivo di spostarci laggiù fosse perchè avevamo dei bimbi piccoli, perchè sai, i padroni di allora guardavano se la famiglia del contadino aveva delle forze buone per lavorare. Noialtri eravamo tutti ragazzetti, allora io penso che fummo costretti a trasferirci là perchè era più piccolo e mio babbo riusciva a tenerci dietro meglio.

Adesso te la racconto tutta oramai.

Non so per quanti anni rimanemmo lì, non mi ricordo, ma il babbo me lo ha sempre raccontato, successe che venne la macchina da battere. Mio padre era uno di quelli che buttava giù i covoni di grano nel trebbiatore. Il padrone era sotto con altri operai a togliere i sacchi di frumento, e stavano facendo le due mucchie, o le tre, non so quante. Mio padre dall’alto lo vedeva bene, e ad un certo punto si accorse che gli portò via un sacco di grano: gli rubava del frumento. Appena lui da sopra vide, venne giù con il forcone che lo voleva inforcare. Me lo raccontava sempre. E sai cosa gli capitò ? Che la sera stessa dovemmo sgomberare e andare via. Ci diede lo sfratto in giornata.

Siamo stati fortunati che mia sorella lavorava dai Zanini come donna di servizio, e loro avevano queste casine ancora su a Caprara allora andammo tutti lassù, in nove o dieci tutti dentro ad un piccolo appartamento.

Caprara di Sopra era un caseggiato dove abitava un contadino, e c’era un’osteria. Noi eravamo pigionanti, e come noi erano altre cinque o sei famiglie. La nostra era una casina misera, eravamo in quattro o cinque a dormire in una stanza, poi eravamo alla fame. Avevamo una miseria che era grande enorme. La povera Ida, la povera Gabriella, e la povera Paola erano già grandicelle. Avevano dai dodici ai quindici anni, e pensavano di andare a trovare da lavorare, ma non si trovava nulla.

 

Quando ero a Caprara, ci fu il matrimonio della zia Edmea, che sarebbe poi quella bastardina che la mamma prese con noi. Non ne aveva abbastanza che aveva sette figli, e prese anche questa bastardina. Lei era un pò più vecchietta di noi. Era circa dell’età della povera Ida, che era del 22. Fonso era del 20, Paola ..... uno ogni due anni. L’unica differenza era da Maria a me che c’è tre anni. Io sono del 28 e la Maria del 31 o 32.

 

Niente, fu una cosa stupenda questo matrimonio. Si andarono a sposare a San Martino poi vennero in quà e si fece da mangiare lì in casa. La sposa con lo sposo a piedi, e la processione fino alla chiesa, poi tornarono indietro e mangiarono lì a Caprara. La mamma era quella che faceva tutti i matrimoni per poter saltare il lavoro, ma allora era il nostro, ed il lavoro toccò a lei. Doveva fare lei per tutti gli altri.

Dopo mangiato sai dove sono andati per il viaggio di nozza? Sopra a Monte Sole, e poi giù per la scarpata. Quando sei lì a Caprara, che vai giù per la scarpata dove adesso hanno messo un pò di catrame, era coperto di zuccherini. Ti ricordi quei bei zuccherini montanari?

Poi andarono là dal pozzo, che c’era il sentiro che andava su. Il loro viaggio di nozze fu quello lì.

E io quando feci la cresima, sempre a San Martino, e posso dire che ero una fortunata, la mia Santola mi aveva fatto una bellissima sottana bianca, poi arrivò a prendermi a casa sempre a Caprara con un somaro coperto di ciambelline così. Mi caricò sopra, e mi ricordo come se fosse adesso, che arrivai là alla chiesa a cavallo di questo somaro coperto di ciambelle. Gli altri erano tutti a piedi, ed io ero sopra al somarino coperto di ciambelle.

Finita la cresima lei mi portò a casa sua, ai Purnarini dopo la Steccola. Ogni tanto mi vengono in mente i nomi delle case. Quel giorno mi prese a pranzo che mi fece chissà che cosa.

Il prete di San Martino era Cobianchi, che poi quando morì tutti i suoi beni li lasciò ai poveri. Aveva dei soldi sai ? Anche quello lì me lo ricordo bene. Mise due persone una di quà e una di là dal cimitero, perchè fu sepolto lì a San Martino lui, con un sacchettino per uno a tutti quelli che erano andati a fare il suo funerale. Erano i beni che aveva accumulatto, almeno così aveva lasciato detto. Perchè lui aiutava ai poveri sai? Non è che se li intascasse lui, e quello che gli era rimasto lasciò detto di darli a chi andava al funerale. Di solito si fà l’elemosina al prete, invece in quel caso fu lui a rendere tutto quello che gli era rimasto: “lo dò a chi viene al mio funerale” lasciò detto.

 

L’unica nostra soddisfazione, quando al pomeriggio dicevano il rosario a San Martino, era che lui aveva un cannocchiale, e ci faceva guardare uno alla volta giù a Pioppe. Questo qui era il nostro divertimento. Si diceva la dottrina, che c’era anche la povera Gabriella, poi c’era anche un cappellano giovane, bellino. E mia sorella andava ad aiutarli. Perchè di gente ce n’era molta. Ogni casa aveva sette o otto bambini. Più ragazzi avevano e più avrebbero avuto possibilità di andare a lavorare poderi grossi. Ci trovavamo in gruppi numerosi di ragazzi ed andavamo alla chiesa. Quella era l’unica nostra soddisfazione.

I nostri giochi erano il cucco, poi a Pasqua con le uova.

Noi dovevamo anche fare dei lavoretti. Perchè mia mamma per racimolare un pò di soldi prendeva il baco da seta. Ma ne aveva parecchio, e allora ci mandava fuori nei campi che c’era quella foglia di, comè pure chiamata, Gelso ? La davano ai bachi da seta.

Con una sacca e una scala andavamo su per gli alberi, quindi del tempo da giocare ce n’era poco. Ci facevano lavorare dove potevamo farlo, quello che era alla nostra portata. Ricordo che la raccolta di queste foglie era anche un pò pericoloso. Giù sotto avevamo una camera dove si tenevano questi bigattini. Era bellissimo sai ? Quando poi facevano le fusa era bellissimo. In principio ce ne voleva poco, ma dopo quando crescevano ci voleva molta foglia.


Noi raccoglievamo solo i bozzoli, poi c’era il padrone che li veniva a prendere quando aveva fatto il fusillo. A Caprara c’era solo la mamma che faceva questa cosa. E noi andavamo a raccogliere la foglia e a pulire, perchè c’era da lavorare. Tutte le mattine bisognava togliere la foglia vecchia e metterci quella nuova, con una foglia la rivoltavamo sopra, e si scossava lì, poi quando incominciavano ad andare su allora era già finita, andavano su per la foglia e facevano una rete, e loro dicevano che incominciavano a filare, poi cominciavano a fare il baco. Era bellino.

Ma i primi mesi, fino a quando si ammollavano ed andavano su c’era da lavorarci, perchè dovevamo pulirli tutte le mattine.

Il padrone, che abitava in Saragozza, poi li veniva a prendere per portarli giù a Bologna non so dove. Lui aveva una villa lì, ma il nome non me lo ricordo, perchè non era tutto dei Zanini su a Caprara, c’era anche un altro.


Noi comunque dei gran divertimenti ne avevamo pochi. Quello di andare a vedere il Duce quando passò fu un gran divertimento. Quando si sposò la zia vederli andare su Monte Sole, e vedere questa distesa di zuccherini giù per i sentierini. E quello di aspettare il postino quando ci portava le caramelle.

Quelli erano i nostri divertimenti. Dopo poi abbiamo avuto tutto il resto.

 

Al tempo dell’uva andavamo a spigolare l’uva, al tempo del frumento andavamo a spigolare il frumento, al tempo delle castagne andavamo a cercare quelle, poi avevamo il posto per i conigli, quindi si andava a cercare l’erba.

Quando veniva la macchina da battere noi ne battevamo sempre qualche quintale sai ? Eravamo in un mucchio, ed andavamo a raccogliere tutte le spighe che lasciavano per terra. Ne compravamo anche, ma so che ne spigolavamo sempre un bel po’, ma c’era sempre da andare in giro a cercare.

Divertimenti per noi bimbi ne avevamo pochi.

Al tempo delle castagne la mamma metteva su una bella calderina di castagne, poi con la ramina faceva le porzioni. Una raminata per uno a tutti. Facevamo la polenta e con una aringa mangiavamo in otto. Un pezzettino così, la tocciavamo lì, fino a quando ce n’era, poi quando non avevamo più fame di polenta finivamo l’aringa. La tenevamo per l’ultimo.

Adesso che si strascina tante cose!

I più grandi andavano anche a veglia, ma noi bimbi e ragazzini no. Quelli di 7 o 8 anni dovevano andare a letto, quegli altri no, loro andavano anche a ballare, facevano le sozie, si raggruppavano con un clarino, una fisarmonica, c’era sempre qualcuno che suonava.

A carnevale per esempio adesso si fanno le sfrappole, allora invece si faceva la crescente fritta. Le sfrappole erano una cosa troppo da lusso. E già le crescente fritte per noi erano un lusso anche quelle. Come i tortellini, adesso ci sono tutti i giorni, allora si facevano per la festa grossa di San Martino, per Natale e per Pasqua. Tre volte all’anno si mangiavano i tortellini.

Le feste le hanno quasi sempre fatte.

Mia mamma si ingegnava dappertutto. Ti dirò che il pane non ce lo hanno mai fatto mancare. Ma il pane asciutto. Perchè del companatico, poca roba. Un maiale all’anno lo ammazzavamo, ma eravamo in nove o dieci dopo che andammo a pigionante sopra a Caprara.

All’osteria di Caprara avevano un cavallino e ogni due o tre mattine venivano a fare rifornimento a Pian di Venola. Avevano di tutto: sale, olio, quelle cose lì. Noi poi compravamo solo il sale e l’olio eh? Non compravamo micca tante cose.

Cominciammo a stare bene quando ci trasferimmo alla Villa d’Ignano. Ma anche lì ci fecero uno sgarbo: dopo che seppero che eravamo andati a contadino mandarono a casa mio padre dal lavoro della direttissima. Per tutto il tempo in cui lavorò nella direttissima doveva andare da Caprara a monte Adone a piedi, quindi doveva stare via tutta la settimana. Avevamo una parente della mamma che stava a Lagaro e lui andava a dormire là.

Io avevo 5 o 6 anni, e ricordo che un mattino arrivò un uomo a cavallo. Ho poi saputo che andò a parlare con papà e disse:

“ascolta mò Arrigo, se tù vuoi andare a lavorare e far lavorare anche le tue figliole, bisogna che prendi la tessera dei fascisti”

Mio padre mi ha poi raccontato che siccome eravamo lì alla fame, e vivevamo solo di spigolare quello che i contadini lasciavano per i campi per campare, allora lui decise di fare quella tessera lì.

Da lì poi mio padre andò in ferrovia sulla Direttissima, e le ragazze andarono a Pioppe alla Canapiera, che facevano i turni: andavano via alla mattina e d’inverno stavano giù a dormire dalle suorine lì a Pioppe. Facevano i turni dalle sei alle due, dalle due alle dieci e dalle dieci alle sei.

Venivano a casa al sabato o la domenica, ora non ricordo, ma era per la loro giornata libera.

Mio fratello invece lo aveva messo sulla Porrettana come stradino.

Ci aiutarono subito.

Poi siamo stati lassù fino a quando io feci la quinta.

Andavo poi a scuola a Cerpiano, che è laggiù di sotto da Casaglia. Da Caprara andavamo a piedi fino là, ed era lunga.

Le marachelle che facevamo giù per quella strada lì.

Eravamo un branco di ragazzi e ci raggruppavamo per andare giù alla scuola.

Nel viaggio a scuola potevamo fare anche il salto alla corda, oppure i sassoli. Si facevano quei giochi lì. Mi ricordo che i maschi erano poi tremendi, mi ricordo che una volta appiccarono il fuoco ad un bosco.

Ricordo bene l’osteria perchè il nostro divertimento da ragazzina era di aspettare la domenica, perchè arrivava su il postino di Sperticano Angelo Bertuzzi. Lui veniva su con una squadra e facevano il “tirabocce”. Prendevano delle bocce, e ciascuno faceva un tiro, il primo che arrivava in cima a Caprara con la prima boccia aveva vinto la gara. Però lui veniva su con una borsa di caramelle, e noialtri eravamo tutti lassù, ragazzetti più o meno piccoli, ad aspettare che arrivasse. L’unico nostro divertimento era che arrivasse il Postino alla domenica, e mangiare le caramelle.

Quando andavamo a messa non avevamo tempo per fare dei giochi, si andava e si tornava. Andavamo al mattino presto, perchè il postino prima di mezzogiorno non arrivava su con le bocce. Lo chiamavano “al tir a l’òst”. Facevano le squadre, poi usavono bocce normali che venivano lanciate, e chi le tirava più avanti, insomma chi arrivava prima a San Martino col tiro a bocce vinceva. Poi all’osteria i vecchietti ed i giovani si radunavano tutti lì, a Caprara.

Il posto è ancora riconoscibile, ci sono ancora le pietre, e io le riconosco. L’hanno scoperto bene, lì è dove c’era l’osteria, e dove stavo io c’è rimasta la scala. Se tu vai su vedi che ci sono tre o quattro gradini, che lì è dove andavo su io. L’hanno scoperto bene bene.

 

Quando Mussolini passò sulla Direttissima il maestro ci portò tutti a vedere passare questo treno, che passò, ma non si fermò micca vè? Davano di bianco a tutte le case che guardavano verso la Direttissima come se fosse chissà che cosa questa zona, e noi ragazzini ci fecero fare i vestiti da Piccoli Italiani le bimbe, e da Balilla i bimbi. Io il vestito bello l’ho avuto allora, perchè erano dei più bei vestitini tutti a pieghe, blu con la camicettina bianca. Sembravamo delle bambole.

Era tutto organizzato da questo maestro.

Poi questo maestro è morto. Lui era uno a cui piaceva andare in apparecchio. Venne giù l’apparecchio e morì il nostro maestro. Era prima che io finissi la quinta, perchè dopo venne un’altra maestra della quale non ricordo il nome.

A Pasqua ci divertivamo ad andare sul prato con tutti gli amichetti. La chamavamo la Montagnola, ma adesso è piena di rovi. Era un prato che andava un pò in discesa, e con le uova sode che i nostri genitori ci davano facevamo un gioco. Si facevano ruzzolare le uova sode giù per il prato e quella che si rompeva perdeva la partita. Facevamo quei giochi lì.

Del resto si andava alla dottrina a San Martino, e a messa alla domenica mattina.

La nostra parrocchia era San Martino, anche se la chiesa di Casaglia sarebbe stata più vicina. E anche lì era una lotta, perchè non avevamo le scarpe. Ah, ma la miseria che ho provato io ragazzi.

Sai chi stava benino un pò, chi faceva il contadino, perchè il mangiare se lo tirava sù nei campi, ma noialtri pigionanti fin che non sono andati a lavorare facevamo la fame. Invece dopo avere fatto la tessera mio babbo era anche riuscito a mettere assieme un pò di soldi e siamo poi andati a stare via da Caprara. Siamo andati ad abitare alla Villa d’Ignano, perchè aveva fatto un pò di gruzzolo. Perchè ci volevano dei soldi per andare dentro a un podere, anche come mezzadro, così andammo a contadino dal prete della Villa d’Ignano.

Io a Caprara ho fatto le cinque classi. Fino a dieci anni. Poi siamo stati cinque anni alla Villa, e quando c’è stata la guerra avevo quindici anni.

 

A Ignano c’erano i Garibaldini, invece di quà a Caprara c’era la Stella Rossa. Noi quindi eravamo nella zona della Garibaldini.

Non ricordo il nome del nostro prete, ma ricordo che era un ubriacone. Lui comunque stava dalla parte dei partigiani: aveva messo un ricevitore sul campanile, ma era sempre ubriaco come un coso.

Un giorno di fine Settembre del 1944, nel pomeriggio, abbiamo visto dei carri armati che andavano su da Monzuno, perchè dalla Villa si vede tutto benissimo, e ci chedevamo che cosa andassero a fare su di lì, perchè a Monzuno c’erano già gli americani. Bo? Cosa vanno poi a fare su di lì ?

Ci accorgemmo poi il mattino seguente: delle cannonate dio buono che pareva il finimondo.

Noi scappammo tutti sotto al campanile, perchè dicevano che il campanile era sicuro. C’eravamo noi, poi venne giù il prete e la sua bisbetica. Il prete venne giù in mutande che aveva una gran paura, poi lui aveva preso dentro anche un signore di Bologna che era un fascista. Quest’uomo aveva la moglie e due figlie.

Il prete, essendo in mutande, disse con mio padre:

“eh, Arrigo, vammi bene a prendere qualcosa da coprirmi, vuoi che rimanga lì così ?”

Intanto che mio padre passava per andare nella Sagrestia una cannonata colpì la chiesa e lui rimase sotto a uno di quei piloni lì. Sai che i campanili hanno quei sassoni grossi che servono da pilastri, e ne cadde giù uno. Rimase là così guarda. Me lo ricordo come se fosse adesso. Aveva tutto il soffitto della cucina del prete sopra alle spalle, e nella pancia aveva quel sassone lì.

Ovviamnete faceva dei gran urli e chiedeva aiuto. Però mentre si toglieva una pietra ne venivano giù due, e se ne levavi due ne venivano giù venti. Insomma siamo riusciti a scoprirlo, ma quando l’abbiamo scoperto credendo che fosse già libero aveva questo sassone di quattro quintali lì così. Come facciamo come non facciamo, allora lui disse: vai in cantina nella rimessa che c’è un palanchino, e forse con quello potete sollevarlo. Però attraversare la piazza era pericoloso perchè erano tutte mitragliatrici e cannonate, eppure io presi sù e riuscii a passare.

Infine siamo riusciti a tirarlo fuori, ma aveva le gambe gonfie così.

Fu poi lì che la mamma disse: adesso lo carichiamo sopra al biroccio e poi andiamo a Caprara.

 

Così ci trasferimmo a Caprara, perché pensavamo che fosse più sicura della Villa, perché lì ci furono dei rastrellamenti e noi ci prendemmo paura.

Quando venimmo via noi sono poi venuti via quasi tutti da là, ed è andata a finire che sono morti quasi tutti.

Appena ci fummo trasferiti a Caprara io pensai di ritornare alla Villa per prendere in qua le bestie, perchè sai, eravamo scappati così “alla boia”, allora dissi a mia mamma che ci sarei andata con altre mie amiche:

“vado a prendere su le bestie”

Mi raccontarono poi che la mattina dopo, che io ero via per riprendere le bestie, si vedevano le case giù in basso che bruciavano tutte. Allora la Mamma disse a mio padre:

“prova bene se puoi muoverti di andare via, perchè gli uomini li prendono e li portano in Germania. A noi donne e ragazze non fanno niente” me lo raccontava Papà, perchè io non c’ero.

E fu così che Papà si avviò per la strada che va a Tura.

Quando fui per la strada la mattina dopo venivo in quà con le bestie ed incontrai Papà, che essendo ferito girava con due bastoni. Ci incontrammo che ero con altre due o tre amiche, una delle quali era parente di quelle Ciacarelle, quelle che le chiamano Ciacarela, e ci disse: “tornate indietro per l’amor di Dio, perchè là bruciano, non so se ammazzano, ma di sicuro bruciano tutte le case” Tornammo indietro ed arrivammo a Tura, dove c’erano i partigiani che ci dissero di passare la notte lì, perché sarebbe stato pericoloso anche andare giù alla Villa. Erano i partigiani della Garibaldina che avevano la sede lì a Tura. Al mattino dopo sentimmo degli urli:

“Sono Paola, Salvina, dove seii. Dov’è la Salvina”

Erano due delle mie sorelle che si sono salvate, però una era rimasta cieca, e l’altra aveva un buco così nel sedere. Tutta la notte avevano girato, da Caprara sono venute fino là a piedi, che è vicino alla Villa, Quella che non ci vedeva, che aveva la forza di camminare ha preso in spalla l’altra e facevano un pezzo di strada per volta così sono riuscite ad arrivare fino là. Ma tu pensi che noi le potessimo riconoscere chi erano?

“Sono Paola, sono Maria, sono Paola sono Maria”

Erano piene di sangue e di brandelli di carne che è una cosa indescrivibile.

Dopo le abbiamo riconosciute, e siamo ritornate giù a casa nostra alla Villa. Che poi i tedeschi vennero anche là, ma non dicemmo nulla. Papà era ferito, come anche le altre due sorelle, ma non dicemmo come erano rimaste ferite, dicemmo che era arrivata una cannonata.

Ci dissero poi che avremmo potuto accompagnarle giù all’Allocco che loro da lì le avrebbero portate a Bologna. Era un giovane militare che poi ripartì in macchina.

Nel frattempo c’era un dottore che aveva ancora una fiala di antibiotico o pennicellina, e la fece a mia sorella che aveva questo buco. Ci disse che se si fosse salvata dall’infezione con quell’iniezione non ci sarebbe stato bisogno di andare via. Dopo la puntura iniziò a stare meglio, e noi la curavamo con dei lenzuoli bagnati nel sale, fino a quando anche il sale finì. Così rimanemmo lì a lungo. Erano sfollati tutti, perchè i tedeschi non volevano nessuno, ma noi dal prete ci trovavamo tanto bene, giù sotto, che c’era una rimessa, ed eravamo in una decina.

Della nostra famiglia eravamo rimaste noi tre sorelle e mio padre. Gli altri erano tutti morti.Quell’anno lì era un anno abbastanza abbondante di tutto, e gli uomini ammazzarono anche un maiale. Per macinare il grano andammo a cercare tutti i macinini che avevamo nelle case e macinavamo il grano per fare il pane.

Però per fare il pane dovevamo accendere il forno.

Noi non volevamo andare a Bologna, perchè poi dicevamo:

“gli alleati sono lì, sono a Monzuno, verranno pure di quà una qualche volta questi Americani. Niente, i Tedeschi ci hanno scoperti, perchè se volevamo mangiare alla mattina accendavamo il forno, così sono venuti su e ci hanno portati via e siamo andati a piedi fino a Bologna.

Ci misero tutti in fila uno dietro l’altro. Su da Tignano, giù da San Silvestro, la Lama, poi giù fino a Bologna. Ci hanno poi depositati nella caserma Giordani.

Sarà stato Dicembre.

Io fui anche abbastanza fortunata perchè andai in casa da quel signore che era lì dal prete. Lui infatti, quando vide che c’era della brutta mossa andò a Bologna, però ci lasciò detto: “se avete bisogno di venire giù questo è il mio indirizzo, venitemi a trovare. Se per caso mai io mi troverò male a Bologna, so che qui sono stato bene e torno qui”

Toccò a noi andare laggiù, sai ?

Sarà stato un fascista, però per me è stato un uomo umano.

Quando andammo a Bologna lo andammo a cercare, però lui il posto per tutti non lo aveva, perchè noi eravamo in quattro, ma un posto lo aveva, e decise di tenere me. Gli altri andarono alla caserma.

Tutte le sere che Dio mandava in terra lui mi portava ogni bene di Dio, per me e per i miei. Ci vestì tutti, ma vestiti eh? Che eravamo degli straccioni. A me mi teneva come una regina. Il cappello, le scarpe, che io avevo sempre avuto lo zoccolo col legno sotto.

Poi venne la liberazione, e sebbene io stessi bene lì a casa di questi signori sono voluta ritornare a casa dai miei. Così feci di nuovo la strada da Bologna a Villa a piedi.

Ecco, questa è la mia vita. Dico sempre voglio scriverla perchè è stata un disastro. Un disastro.

 

Dopo poi l’hanno ucciso sai? Nei tre giorni bianchi i fascisti li ammazzavano tutti, ed uccisero anche il Pretore.

Tempo dopo andai a trovare la moglie, che dal gran dispiacere fu ricoverata dentro l’ospedale dei matti.

Dopo tanti anni andai dentro a un supermercato e mi sentii chiamare:

“Salvina, Salvina”

“Ma chi è che mi chiama, qui dentro”

Era una figlia di questi signori che aveva un nome russo, non ricordo quale adesso.

Mia sorella che era rimasta cieca ha poi recuperato, però sono morte tutte due dopo con l’alzimer, e per me è stato quello che hanno passato lassù. Perchè si sono salvate sotto ai morti. Fino a quando sentivano dei bimbi che piangevano buttavano dentro delle bombe a mano. Poi mia sorella diceva sempre che c’era uno monco, e lei lo riconobbe che c’era Reder.

Ne ha avuto abbastanza. Ricordo che quando facevano vedere Marzabotto per televisione apriva degli occhi così.

 

Dopo la guerra abbiamo continuato a vivere alla Villa fino a quando venni in Tignano e mi sposai. Mio babbo è sempre stato là. Da Ignano sono venuta a Pian di venola, che è nata la prima figlia, dopo due giorni che ero in Pian di Venola, sicchè la Lucia è nata il 16 di Novembre del 46.

 

Mio marito era stato rastrellato e mandato in Germania. Quando tornò a casa trovò tutta la famiglia distrutta, c’era rimasto solo suo padre.

Lui poverino aveva trovato una donna là che gli dava da mangiare di nascosto e quando venne a casa la prese con se. Quando arrivò in fondo all’Allocco chiese alla gente dov’era la sua famiglia, e nessuno gli rispondeva, perchè sapevano che non esisteva più. Arrivò poi suo padre Iubini, che lo riconobbe: “quello là è Augusto”

Gli chiese degli altri e seppe che li avevano ammazzati tutti.

La donna tedesca l’aveva lasciata giù, non so dove, e quando seppe che i tedeschi gli avevano ammazzato tutta la famiglia tornò indietro di corsa e la mandò via:

“torna a casa tua, qui non ti voglio”

Dopo poi ci fidanzammo. Io lo conoscevo da prima, ma non eravamo fidanzati. Quando ci sposammo prendemmo in casa anche suo babbo. Noi eravamo l’unica famiglia in cui eravamo rimasti in quattro, io papà ed altre due sorelle, poi prendemmo anche suo padre, Iubini.

Dopo sono stati a lungo con noi, perchè loro abitavano alla Volta, che è sopra a Canovella. Loro avevano il podere proprio in cima alla montagna. Così ci accompagnammo, senza sposarci. Mi sono poi sposata dopo che venni ad abitare qui a Pian di Venola. Mi sono sposata in comune e basta.

Da lì venimmo poi nel podere di Calzolari che veniva detto Ciaccarella, alla Mattoniera, dove adesso abita mia figlia. Stavamo abbastanza benino, davamo via il latte.

Anche questo Calzolari è morto con la guerra, e non si è saputo dove sia andato a finire, sia lui sia suo figlio. Ma lui era uno che comandava su per di là. Era un fascista. Lui faceva il fattore di San Martino, e c’era qualcuno che non gli andava bene. Forse lui lì era uno di quelli convinti, però non ne sono sicura.

Voi ragazzi che siete giovani, fate tutto il possibile perchè la guerra non torni più. Per l’amor di Dio.

 

Abbiam passato quello che abbiamo passato, poi dopo la guerra non avevamo più nulla da mangiare. Io a 19 anni rimasi vedova con tre bimbi, e quando morì mio marito mi fecero la colletta, e con quei soldi lì pagai il funerale.

Quando morì lui aveva appena finito di fare una settimana sopra a Malfolle con un muratore, e mi diedero poi quei soldi lì, ma era tutto quello che avevo.

Il Comune, adesso vi dico la verità: io non gli ho mai chiesto niente, ma non mi ha micca mai aiutato sapete ? Andavo a fare le strade con la Tot, e mi misero giù anche le marchette della pensione. L’unica cosa mi diedero fu la casa popolare, perchè avevo lo sfratto, e basta.

Era miseria dappertutto. Mi avevano dato da fare da mangiare ai bimbi della scuola a Pian di Venola. Io facevo da mangiare a casa mia, ed a quel tempo abitavo qui su alla Palazzina. Mi davano la legna per cucinare, e con quella intanto mi scaldavo. Tutto l’anno mi scaldavo con quella legna lì, poi avevo il libretto, ma di quello non ne ho mai usufruito, perchè ne avevo abbastanza, perché mi rimaneva sempre qualcosa da ciò che cuocevo per i bimbi. Per mangiare e scaldarmi me la cavavo così, però l’affitto se lo volevo pagare tutti gli anni dovevo andare dietro la macchina da battere. Un mese sotto al trebbiatore a portare via l’allocco.

Il comune mi aiutò così, dandomi il lavoro per cucinare ai bimbi della scuola. Ma forse non avevano molte risorse per aiutare, e me la sono cavata per 5 o sei anni.

Io ogni tanto andavo giù per vedere se mi potevano aiutare, ma non mi trovavano mai niente, per me non c’era lavoro da nessuna parte. Io sapevo che alla Lama qualche volta prendevano dentro qualche donna, ma io non sono mai riuscita. Ma quelli a cui mi rivolgevo erano fascisti perchè in comune comandavano ancora loro. Un mattino uno di questi mi prese da una parte e mi disse: “ascoltami mò Salvina, sono stanco di vederti sempre venire qui a piangere, adesso provo io”

Bè, mi fece andare dentro da Giordani, e io lui lì lo ringrazierò sempre, anche se era un fascista. Cosa ti debbo dire adesso: io li ho a noia, perchè ... per l’amor di Dio, però se io ho avuto un aiuto, con tanti compagni …

Era quello dell’Anagrafe: Casalini. Lui abitava a Sperticano. E’ stato lui a darmi da lavorare. Da allora in avanti ho potuto respirare un pò. Le mie due figlie dovetti metterle in collegio, il figlio maschio invece lo tenni a casa.

Le misero poi in collegio quando io mi ammalai, e rimasi 40 giorni con la febbre a 40, che il dottore Dedonno mi portò al Sant’Orsola, lui poi era stato un grande amico di mio marito. Facevano a gara perchè tutti due avevano tre femmine, e facevano la gara a chi avrebbe fatto un maschio per primo.

 

Ma mio marito era già morto a quel tempo. Mi portò al sant’Orsola ma non c’era posto, e mi misero in corsia. Allora il dottore si sedette accanto a me, e quando una suorina di passaggio gli chiese:

“che cosa fa lei qui”, lui rispose:

“io sono il suo dottore, e fin che questa signora non la metterete a letto io non vado via”

Al chè la suorina disse:

“non ce ne sono micca tanti che fanno questo per i loro pazienti”

Mi fecero una puntura in una spalla e guarii subito.

Ma in quel periodo lì io avevo a casa tre figli: uno di 2 anni uno di 3, e uno di due mesi. Ed era molto difficile in quelle condizioni lì seguirli come si deve, allora quelle due lì le misero in collegio, e il piccolo lo tenne mio suocero Iubini.

Ah io ho fatto una vita che non l’auguro a nessuno. Adesso sto bene, ma quest’anno non ho più la salute.

Adesso ti dirò che dei nipotini ne ho già 5.

 

Caprara di Sotto, foto di Luigi Fantini del 16 Luglio 1939. Pubblicata nel libro "Antichi Edifici della Montagna Bolognese.

 

Ida, Gabriella e Salvina. Dettaglio della foto di Fantini a Caprara di Sopra.

 

Matilde Iubini, con i figli e la Nonna. Il figlio più grande sposerà poi Salvina.

 

Salvina col marito Augusto Iubini e la figlia Lucia. Salvina è visibilmente in stato interessante in attesa di Maria.

 

Salvina Astrali, durante la permanenza a Bologna dopo il massacro.

 

Nonno Iubini a sinistra, ed a destra suo fratello.

 

Nonno Iubini Primo a Pian di Venola (località Mattoniera)

 

 

 

 

Estratto dal libro “Il Massacro” di Baldissara e Pezzino edito Il Mulino – Maggio 2009

 

Caprara

Nella cartina disegnata da Walter Reder l'obiettivo finale della compagnia comandata da Saalfrank era Caprara, antico borgo for­tificato e capoluogo del comune prima che la sede amministrativa fosse trasferita a Marzabotto. Saalfrank tuttavia affermò che il 29 non era riuscito ad arrivare a Caprara: sarebbe rimasto fermo per tre ore al rifugio (Villa Serana) dove aveva trovato, e lasciati senza violenze, sessanta civili, e quindi sarebbe tornato alla sua base di partenza nella valle del Setta, come tutte le compagnie dell'AA 16. Durante la notte, il fuoco d'artiglieria notturno avrebbe spianato la strada alle truppe, che il giorno dopo – essendosi lui rifiutato di attaccare di notte, come Reder gli aveva richiesto su iniziativa di Loos – non trovarono più resistenza: raggiunse Monte Caprara verso mezzogiorno, e vi incontrò Segebrecht, il comandante dalla 1a compagnia, che gli disse di aver sofferto gravi perdite e che probabilmente aveva ucciso in azione il comandante della Stella rossa. Ebbe quattro o cinque feriti tra i suoi uomini, compresi quelli del plotone aggregato alla compagnia di Segebrecht. Se­condo Reder, il 30 settembre Saalfrank ebbe su Monte Caprara un incontro con gli altri comandanti e, ritenendo raggiunti tutti gli obiettivi, avrebbe ordinato il rientro, avvenuto nel pomeriggio. Al dibattimento contro Simon, Saalfrank ripeté che:

 

La mattina seguente noi riprendemmo la nostra azione e partimmo per la marcia fra le 6 e le 7. In quel giorno non ho incontrato resistenza da parte dei partigiani, che si erano ritirati durante la notte. Ho visto 4 o 5 civili, banditi regolari che erano stati uccisi da colpi di fucile. Non ho visto altri civili (non partigiani). Ho raggiunto Monte Caprare [sic!], ho segnalato che avevo raggiunto il mio obiettivo e sono ritornato per la via più breve [..] Sono stato in Caprare [sic!] e ho visto le fortificazioni. Le loro cantine erano state trasformate in cantine fortificate. Non avrebbero potuto essere solo rifugi antiaerei […] Quattro case in Caprare [sic!] erano state fortificate. Le cantine erano state rafforzate e c'erano delle trincee […] Erano simili alle fortificazioni russe. Nelle case in Capraie [sic!] ho trovato munizioni americane e tedesche e mitragliatrici. Credo che al briefing ci fu detto di missioni militari alleate presso i partigiani e noi credevamo che la divisione Stella Rossa fosse un gruppo di banditi russi.

 

Quindi a Caprara vi sarebbe stato un vero e proprio sistema di case fortificate – ciò che già era stato sostenuto al processo a carico di Kesselring, lo vedremo nel capitolo VIII – utilizzate dai partigiani, dove tuttavia non sarebbero avvenuti scontri, perché quando Saalfrank vi arrivò il 30 (lui e altri comandanti di compagnia) la resistenza era già stata debellata dall'artiglieria durante la notte.

Noi sappiamo tuttavia che qualche tedesco arrivò a Caprara già nella giornata del 29, nel primo pomeriggio. Maria Collina abitava con la famiglia nella frazione di Villa d'Ignano del co­mune di Marzabotto, sul versante del Setta, nel podere Scaletto, gestito dal marito e dal cognato; a causa di un rastrellamento in un casolare vicino e di voci allarmanti sull'atteggiamento tedesco verso i civili, il 28 settembre avevano abbandonato il podere e attraverso i boschi si erano diretti a Caprara, trovando ospitalità presso una famiglia amica. La mattina del 29, avendo sentito nei dintorni «molti colpi di cannone e di mitraglia», gli abitanti della zona raggiunsero un rifugio vicino. Dopo poche ore, arrivarono sette o otto soldati, che rastrellarono le persone nel rifugio, le misero in fila, le rinchiusero in una delle case di Caprara, get­tando quindi delle bombe da una finestra e dalla porta: erano «settanta persone tra donne e bambini ad eccezione di due o tre vecchi», e sopravvissero solo in otto. Maria Collina perse tre figli di quattro, sette e nove anni, mentre un altro suo bambino di nove mesi rimase ferito dalla schegge e morì al Sant'Orsola di Bologna nel gennaio successivo. Lei, pur ferita alla gamba sinistra, riuscì a salvarsi.

Anche Gilberto Fabbri era nel rifugio di Caprara: sfollato da Vado, la mattina del 29 era a Serana, ma avendo sentito colpi di fucile e di mortaio, decise di recarsi a Caprara e, come molti in quei giorni, fu vittima del caso, perché, come abbiamo visto, ai civili trovati a Serana non fu fatto niente. Verso le 14.30-15, tre soldati tedeschi entrarono nel rifugio, li fecero uscire e li rinchiusero nella cucina della casa

 

chiamata Caprara. Essi chiusero tutte le porte ed aprirono soltanto la finestra della cucina ed immediatamente dopo gettarono nella cucina 4 bombe a mano tedesche [«avevano un manico di legno sulla cima del quale c'era una specie di scatola di latta»] ed una grande di colore rosso. Ci fu una forte esplosione e molto fumo.

 

Nonostante fosse rimasto ferito alle gambe, Gilberto Fabbri riuscì a saltare fuori dalla finestra e a rifugiarsi in un cespuglio vicino, da dove vide i tedeschi andare alla porta della casa, e poco dopo «due donne scappare attraverso un campo vicino»; furono raggiunte da colpi di fucile e caddero a terra. «Dopo che ero sotto il cespuglio da tre quarti d'ora, sentii parecchi colpi seguiti da grida di donne: dopo ci fu silenzio». Solo la mattina successiva abbandonò il suo nascondiglio, con una marcia di parecchi chilometri girò attorno a Monte Sole e arrivò in serata a San Mamante, dove fu accolto da un contadino. Per le ferite riportate, dovette passare cinque mesi negli ospedali di Bologna e rimase inabile al lavoro.

Anche Nerina Moschetti, di soli nove anni, riuscì a salvarsi, saltando fuori da una finestra e nascondendosi in un tombino. E così Maria Astrali, di tredici anni (nell'eccidio morirono sua madre e tre sorelle, di ventidue, venti e undici anni), si salvò, insieme a un'altra sorella, Paola, perché fu ricoperta dai cada­veri: secondo la sua testimonianza del 2002, uno degli uomini con la divisa tedesca «parlava correttamente italiano». Nerina ha anche dichiarato di ricordare «distintamente la presenza del Reder per tutto l'episodio», riconoscendolo per il braccio monco e «anche perché l'ho rivisto poi alla televisione», ma si tratta di una deformazione della memoria, dovuta evidentemente al gran parlare che si fece di Reder negli anni successivi, perché è pressoché certo che il comandante dell'AA 16 quel giorno non fosse a Caprara.

Ecco come Salvina Astrali, che era scesa a Villa d'Ignano a recuperare le bestie e stava ritornando a Caprara dove erano sfollati, ha raccontato le modalità del massacro, riferitele dalla sorella Maria:

 

Bombe a mano e la mitragliatrice sulla finestra [ ... ] e finché sentivano delle urla buttavano dentro bombe a mano e smitragliavano, finché ci sono stati dei bimbi che piangevano buttavano dentro le bombe a mano, finché c'erano dei bimbi vivi che loro piangevano buttavano dentro bombe a mano, finiti di morire i bimbi piccoli hanno smesso di mettere bombe. Loro sono rimaste ferme fino alla sera sotto i morti.

 

Al dibattimento Maria Astrali non si presenterà a deporre. La sorella, Salvina, ha spiegato: «non può venire perché è ma­latissima, è dentro un ricovero, ma appena che le parlano di Marzabotto... lei è rimasta scossa e quelle due sorelle che sono rimaste sotto che si sono salvate tutte e due si sono ammalate dopo, non hanno mai avuto niente da nessuno». Così Salvina racconterà il suo incontro con Maria e l'altra sorella superstite, Paola, il giorno 30 settembre:

 

Quando siamo stati lungo la strada [da Villa d'Ignano a Caprara, il 29 settembre] ho incontrato mio papà che dice: «tornate indietro che là ammazzano, rastrellano tutto danno fuoco a tutto». Siamo tornati indietro, ci siamo fermati che c'era un podere di un contadino, c'era il ricovero dei partigiani lì che ci hanno fatto fermare, hanno detto: «State lì stanotte perché andare giù c'era il rastrellamento». Ci siamo fermati lì. Dopo il mattino, appena è venuta l'alba abbiamo sentito chiamare: «Salvina, Maria, papà, dove siete?». Erano due mie sorelle che si sono salvate dentro la fossa di Caprara. Nessuno le conosceva dal gran terrore che erano messe, una aveva le cervellina della testa di mia sorellina più piccola. Lì abbiamo finiti tutto lì, hanno detto che avevano ucciso tutti «noi ci siamo salvate, perché ci siamo buttate sotto i morti, ci siamo salvate sotto i morti»; una di queste due sorelle è ancora al mondo, ma poverina ha avuto anche lei una scossa, che non sono mai più state cristiane, perché una aveva preso due schegge di bombe a mano nel sedere ed aveva due buchi così; l'altra era rimasta cieca, tutta la notte l'hanno vissuta in mezzo al bosco; poi al mattino quella che vedeva portava l'altra in spalla. Sono arrivate lì dove eravamo noi in quelle condizioni lì. Io dico quello che mi hanno detto loro, perché io sono stata fortunata, diciamo così, non sono rimasta lì la sera, sono tornata indietro per andare a prendere questo bestiame credendo di portarlo al sicuro, e mia mamma ha detto a mio padre: «Scappa te che gli uomini li prendono tutti ed a noi donne non ci fanno niente», invece li hanno ammazzati tutti.

 

Non c'erano partigiani a Caprara. Maria Collina racconta che ai tedeschi arrivati al rifugio fecero rilevare che erano tutte donne con i figli e che non c'erano uomini, «ma essi non vollero sentire ragioni né ebbero alcuna pietà di fronte alle grida disperate di noi madri e di tanti piccoli innocenti». Lei personalmente cercò di par­lare con un militare che la ricacciò brutalmente dicendo «non c'è bimbi, non c'è níente». Gilberto Fabbri confermò che «i tedeschi non interrogarono nessuna delle persone ch'erano nel ricovero».

I partigiani avevano in realtà le loro sedi fra Caprara di So­pra, Caprara di Sotto, Casetta e Poggio di Casaglia, dove erano schierate le quattro compagnie del 30 battaglione della Stella rossa (la sede del comando era a Caprara di Sotto), ma alle prime luci del giorno, accortisi del rastrellamento in atto, si erano ritirati sui monti soprastanti, Monte Caprara e Monte Sole. Secondo Carlo Castelli, vicecomandante del battaglione,

 

la popolazione di Caprara era stata invitata da noi, prima che vi giunges­sero i tedeschi a portarsi con noi sulle posizioni di Monte Sole; ma pochi accettarono cioè pochi rimasero sulle nostre posizioni perché altri dopo esserci venuti vollero tornare all'abitato, prima che arrivassero i tedeschi, forse preoccupati della sorte del bestiame. Così avvenne che quelli che rimasero con noi furono salvi mentre furono trucidati tutti gli altri.

 

Guerrino Avoni, che comandava la 3a compagnia del Y bat­taglione, dalla sua postazione su Monte Sole, a circa duecento metri da Casaglia, con un binocolo poté vedere una fila di donne (ne contò sedici), una con un bambino in braccio, portate verso Caprara, legate con una corda, e i tedeschi gettare bombe a mano fra di loro. In tre tentarono la fuga: una di esse fu uccisa con un colpo di pistola, le altre due scomparvero dalla sua vista. Il già citato Castelli

 

durante l'eccidio di Caprara vide] inseguire una donna che, fuori dell'abi­tato cercava di scappare in direzione della Valle del Setta; il tedesco di cui non posso precisare il grado, la raggiunse, l'afferrò per i capelli e le sparò con la pistola in faccia uccidendola.

 

Primo Lanzarini aveva a Caprara la famiglia: la mattina del 29 era nascosto sul Monte Caprara, nel versante verso Pian di Venola, e quindi non poté vedere alcunché. La sera si recò a Caprara, e fra i cadaveri notò una bambina di due anni e mezzo ancora viva, che prese con sé. Fra i corpi della casa vi erano quelli della madre Cleonice Rosa, alla quale sarebbe stata attribuita la qualifica di «partigiana» (lo stesso Primo dichiarò alla Commissione crimini di guerra della 5a armata di avere aiutato i partigiani), della zia Alda e di tre altre sue sorelle (Anna e Rosanna, due gemelle di sei anni, e Vittorina di dodici). Solo dopo nove giorni Primo ritrovò la sorellina Lucia, di nove mesi, vicino alla casa, morta probabilmente di inedia.

Armando Moschetti, che con il fratello Alfonso era colono a San Martino di Caprara, la mattina del 29, quando vide bruciare casolari e fienili «nella zona circostante per un perimetro di oltre due chilometri», si nascose nel bosco portando con sé le bestie, e vi passò tutta la giornata, in una buca coperta da una pietra. La sera, quando uscì dal nascondiglio, passò da Caprara, dove in un casolare vi erano circa sessanta corpi che ancora bruciavano.

 

Davanti alla porta vidi due bimbi — l'uno di due anni e l'altro di quattro anni — che piangevano. Corsi verso di loro e piansi anch'io. Vo­levo tirarli fuori ma proprio allora furono tirati dei colpi di mitragliatrice e fui costretto a buttarmi a terra. Così non potei salvare i due bimbi che erano entrambi feriti.

 

Tornò a rifugiarsi nel bosco, dove sarebbe rimasto per tre giorni; il 30 settembre, a San Martino, i tedeschi avrebbero uc­ciso, fra gli altri, i genitori, un fratello, la moglie, i tre suoi figli di sei mesi, nove e dodici anni, una cognata, tre nipoti. Ernestina Castagnari, moglie di un altro fratello, Alfonso, anche lui riuscito a scappare, era fuggita a casa dei suoceri a Caprara di Sotto: quando Alfonso, che era rimasto nascosto nei boschi per otto giorni, si recò alla casa, la trovò bruciata, senza nessuno della sua famiglia. Dai dati ufficiali la moglie risulta deceduta il 29 a San Giovanni di Sotto, evidentemente rastrellata sulla strada da una delle tante pattuglie tedesche che battevano quei luoghi.

Guido Tordi, partigiano, comandante la 1a compagnia del 4° battaglione, la sera del 29 abbandonò le posizioni su Monte Sole, dove si era rifugiato durante l'attacco tedesco, e con un nutrito gruppo di partigiani si ritirò verso Caprara:

 

Nella prima casa che bruciava e crollava sotto le fiamme entrai perché di là veniva una voce di bambina che chiamava "mamma" ed invocava aiuto. Dentro vidi una quindicina di cadaveri di civili, in maggioranza donne e bambini, legati e massacrati, sui quali avevano infierito con raffiche e bombe a mano. Dovevo muovermi nel sangue e mi era impossibile non calpestare resti umani sparpagliati ovunque. In quel momento il soffitto mi crollò addosso ed una bimba di 8-9 anni piombò a terra, sul mucchio di cadaveri: per sua fortuna era viva e non ferita, solo in preda a terrore folle. A destra della porta, da una credenza chiusa da cui venivano dei lamenti, estrassi una bambina di due anni circa, ancora viva ma con una guancia maciullata ed un fianco squarciato: dal ventre perdeva le interiora. Un medico della brigata le prestò le cure possibili.

 

Roberto Carboni la mattina del 29, ai primi rumori di spari, abbandonò Caprara, insieme agli altri uomini:

 

Nei precedenti rastrellamenti, i nazifascisti avevano sempre catturato solo gli uomini per deportarli o fucilarli, avevano anche bruciato case ma rispettato le donne e i bambini. Perciò quella mattina, quando ci rendem- mo conto della presenza dei nazifascisti, noi uomini validi decidemmo di nasconderci, ma per la sorte delle donne e dei bambini, pensammo di non doverci preoccupare.

[ ... ] Quando finalmente tornai, mi si presentò la casa bruciata e in parte crollata. Davanti a casa non c'era nessuno, ma come entrai in cucina dopo essermi fatto strada fra le macerie, la trovai piena di cadaveri accatastati. Erano 44, tutte donne e bambini. Parte h conoscevo perché erano miei vicini, altri erano gente di Villa Ignavo, Sperticano e altri luoghi. Li avevano tutti ammucchiati in cucina, poi dalla porta aperta che dava sulla strada, li avevano massacrati con la mitraglia e le bombe a mano. Impossibile scappare, perché di fuori stavano in agguato e chi provò fu ributtato dentro a colpi di fucile, come si capiva da alcuni cadaveri che facevano mucchio proprio sotto la finestra. A vedere quella quantità di morti, si pensava che doveva essere stata una cosa tremenda. Per lo più erano uno sopra l'altro contro la parete di fronte all'uscita, segno che spingevano da quel lato nell'ultima disperata illusione di trovare scampo, di fuggire davanti alla canna della mitraglia che sparava dal vano della porta. Poi i nazisti avevano minato la casa, che in parte era crollata sui cadaveri. C'erano bambini e donne con­sumati dal fuoco: quando li raccogliemmo per seppellirli, le carni bruciate si sfacevano. Riuscimmo a seppellirli tutti in una grande buca.

 

Chi si rese responsabile dell'eccidio di Caprara? Secondo Zanini, due squadre di tedeschi, una del 105° reggimento Flak, che saliva dalla valle del Reno, lungo il sentiero Campedello- Castellino (dove avrebbero ucciso i componenti della famiglia Tondi), per ricongiungersi a Caprara con i soldati saliti dalla valle del Setta: come sempre Dario Zanini non riferisce la fonte delle sue affermazioni, e nessun'altra testimonianza conferma la presenza degli uomini del 105° reggimento Flak. Maria Collina, che sopravvisse alla strage, fu molto decisa nel sostenere che il gruppo di sette-otto soldati che rastrellarono il rifugio, portaro­no le donne e bambini nella casa di Caprara e li massacrarono, erano giovanissimi SS, che lei riconobbe dal caratteristico fregio sul colletto. Gilberto Fabbri, altro sopravvissuto, prima sostenne in ben due testimonianze di non poter dire niente in proposito, perché i soldati che operarono a Caprara, solo tre a suo dire, erano coperti con teli mimetici e avevano l'elmetto camuffato con foglie; al dibattimento cambiò versione – senza che nessuno gli facesse rilevare la contraddizione con le sue deposizioni agli atti – e sostenne che i soldati avevano il distintivo delle SS. Nel 2002 confermerà che si trattava di militari delle SS.

Il partigiano Luciano Fortuzzi, del 4° battaglione, rifugiatosi sulle pendici di Monte Sole, affermò che circa cinquanta soldati arrivarono prima a Casaglia, verso le 7 di mattina, e poi scesero a Caprara, dove uccisero i civili e dettero fuoco alle abitazioni: si tratterebbe quindi di uomini della V compagnia di Reder. Otello Musolesi sostenne che i tedeschi che operarono nella zona fra Monte Sole e il Setta, che lui vide da lontano e in una giornata con scarsa visibilità, senza poter distinguere le mostrine o particolari fregi, indossavano un impermeabile nero e lucido; Carlo Castelli, che era con lui, sostenne invece che le truppe erano vestite «di un color coloniale, tela, cori pantaloni lunghi chiusi in fondo come quelli per sci, elmetto; molti portavano l'impermeabile che mi pare di tipo mimetico».

In questa contraddittoria girandola di affermazioni, nessuno ha sottolineato un'affermazione di Max Saalfrank al dibattimento contro Simon: dopo avere dichiarato che lui era entrato a Caprara solo il giorno 30, aggiunse:

 

Il mio primo plotone entrò a Caprare [sic!] e rastrellò il Quartier generale della Stella Rossa. Cadde quindi sotto un fuoco incrociato da destra e sinistra e abbandonò il luogo, ritirandosi. Più tardi fu sotto un intenso fuoco dall'area di San Martino e tutte le comunicazioni caddero. Io ero a circa 800 X [sica Probabilmente metri o yarde] verso Sud con otto uomini — vicino all'edificio dove avevo trovato 60 civili. Ho respinto forti gruppi di partigiani che mi attaccavano dalla ferrovia. Ho avuto quattro perdite.

 

È l'ammissione esplicita che il 29 settembre una pattuglia della 5a compagnia dell'AA 16 entrò a Caprara, del resto l'obiettivo esplicito della colonna comandata da Saalfrank, il che conferma quanto ebbe a dichiarare Otello Musolesi, comandante del 30 bat­taglione della Stella rossa, che cioè il 29 settembre i tedeschi ave­vano conquistato Monte Caprara. La dichiarazione di Saalfrank non si può riferire al giorno successivo quando, secondo quanto ammesso da lui stesso e da Reder, non vi fu alcuna resistenza da parte dei partigiani: l'asserito rastrellamento del quartier generale della Stella rossa altro non è che lo sterminio delle donne e dei bambini rinchiusi in un casolare di Caprara.