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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI

 

LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.

 

 

capitolo 9

  IL DOPOGUERRA

 

Pian piano si torna alla vita normale e così Martino cerca un lavoro per cominciare a guadagnare qualche soldino, pur continuando ad aiutare suo padre nei campi, soprattutto per il trasporto del fieno. 
Dapprima trovò lavoro presso la ditta Scardovi, che faceva dei lavori nella stazione dei treni di Sasso. Vi lavorava anche il futuro suocero, Pietro, appena ripresosi dalla grave malattia contratta lavorando nella Linea Gotica. Era il mese di luglio del 1945. 
Dopo appena un mese, nell’agosto del ’45, Martino venne chiamato a lavorare nel Comune di Sasso Marconi, in qualità di guardia comunale. 
Lavorava in coppia con Vittorio Suzzi, ben ricordato da Gianni Pellegrini in “Vittorio Suzzi.
Dalla parte giusta. Dialoghi con Martino” pubblicato dall’ANPI in data 2010. 
A quei tempi non avevano né divisa nè traffico da controllare, se si esclude qualche bicicletta senza catarifrangente. 
Il loro compito era quello di perlustrare il territorio del comune, per individuare il materiale abbandonato dai Tedeschi, farlo recuperare dagli operai, con i pochi mezzi allora a disposizione, per poi trasportarlo nel magazzino comunale. 
Il magazzino era situato in un recinto dietro al cinema e tutto il materiale, comprendente anche ferro e rame, veniva scaricato lì, patrimonio a disposizione del Comune, che poteva usare o vendere.  
Successivamente, Martino, che aveva ancora la pallottola conficcata nel pleura e non si poteva più estrarre, venne chiamato in ospedale per una visita, allo scopo di verificare se era nelle condizioni di aver diritto ad una pensione. 
Il colonnello Comelli, radiologo di professione (causa della sua morte prematura per tumore), volle assistere alla visita, per sincerarsi che Martino fosse trattato correttamente.  Così, il giorno della visita, Martino passò dalla casa di via Frassinago, presero il tram e andarono insieme all’ospedale militare, che allora era vicino al Tribunale. 
La radiografia mostrò inequivocabilmente la pallottola là nella sua sede. 
Gli assegnarono per due anni la pensione di guerra, rinnovabile.

I soldi della pensione si fecero attendere: non arrivavano mai! 
Passarono alcuni anni. 
Nel frattempo avevo rivisto la Gianna, quella ragazzina amica di mia sorella Ede. Quasi non la riconoscevo: con la guerra si era sviluppata ed era diventata una bella ragazza, di cui subito mi innamorai. Pensai: voglio provare a filare con lei. 
Cominciammo a frequentarci, insieme ad altre coppie di amici. 
Quei primi anni del dopoguerra furono molto intensi, quasi a voler recuperare il tempo perduto. Eravamo impegnati nelle attività di partito, la sera si ballava, si sudava, si prendeva freddo e… si mangiava male. 

Lino Lucchi, Arnaldo Gandolfi e Martino Righi si godono il sole del dopoguerra in fiume

Così, nell’estate del ’46, mi ammalai di pleurite e fui ricoverato, per due mesi, nel convalescenziario di Lizzano in Belvedere, dove mi avevano mandato dall’ospedale militare. 
C’era anche un mio amico ricoverato lì, che talvolta riceveva la visita di suo padre, il quale arrivava dalla Fontana in bicicletta! Una volta volle aggregarsi a lui anche la Gianna, ma per un contrattempo non ci riuscì.  
Passavano gli anni e noi volevamo sposarci, ma soldi non ce n’erano per metter su casa.  Un bel giorno, eravamo già nel ’49, arrivarono tutti gli arretrati della pensione. Così, riuscii a comprare almeno i mobili della stanza. 
E, quando fu pronto l’appartamento alla Fontana, di proprietà dei Danielli, venne a montarmi quei mobili il falegname che me li aveva venduti, Carlo Grandi, di via Stazione di Sasso. 
Mancavano tutti gli altri mobili, ma c’era la stanza e per noi era già abbastanza per sposarci.  

Ma proprio nel giugno del ’49 arrivò la scomunica, con l’Avviso Sacro del Vaticano, che recitava testualmente:

« Avviso Sacro

Fa peccato grave e non può essere assolto

1.      Chi è iscritto al Partito Comunista.

2.      Chi ne fa propaganda in qualsiasi modo.

3.      Chi vota per esso e per i suoi candidati.

4.      Chi scrive, legge e diffonde la stampa comunista.

5.      Chi rimane nelle organizzazioni comuniste: Camera del Lavoro, Federterra, Fronte della Gioventù, CGIL, UDI, API, ecc…

È scomunicato e apostata

Chi, iscritto o no al Partito Comunista, ne accetta la dottrina atea e anticristiana; chi la difende e chi la diffonde. Queste sanzioni sono estese anche a quei partiti che fanno causa comune con il comunismo.

Decreto del Sant'Uffizio - 28 giugno 1949

N.B. Chi in confessione tace tali colpe fa sacrilegio: può invece essere assolto chi sinceramente pentito rinuncia alle sue false posizioni. »

L’avviso venne pubblicizzato capillarmente con ogni mezzo. Questo volantino affisso ai muri ne è un esempio:

 

 

 

 

E Martino era un attivista convinto del partito comunista…

I matrimoni religiosi erano vietati agli iscritti al Partito Comunista. 
Io non volevo rinnegare la mia tessera del partito e tantomeno la mia appartenenza politica così, se anche lo avessi voluto, non potevo certo sposarmi in chiesa. Comunque ero già così disgustato dalle posizioni della Chiesa, che si aggiungevano alla lunga lista delle connivenze col fascismo del vicino passato, che non volevo avere più  niente a che fare con i preti. 
Io volevo sposarmi solo in Comune!

Martino e la Gianna quindi dovettero ancora superare un grosso scoglio: fare i conti con l’oste. 
La Gianna, in quel periodo ancora critico per i mezzi di trasporto, lavorava da Giordani a Bologna e stava per tutta la settimana lavorativa presso una zia, che, a sua volta, rimasta senza casa con la guerra, era ancora alloggiata con la famiglia nel Seminario di via dei Mille. 
Una domenica, Martino si presentò a casa dei genitori della Gianna ed esordì: abbiamo deciso di sposarci, però ci sposiamo solo in Comune e non in Chiesa. 
Apriti cielo! La madre cominciò a piangere, mentre il padre tuonò inorridito: guardate questi muri qui dentro, guardateli per l’ultima volta, perché dopo non li vedrete mai più!  
Pietro, pur di convinta fede socialista, temeva soprattutto le critiche dei benpensanti per lo scandalo, dato che nella loro comunità non si erano mai visti matrimoni civili! Nessuno ne aveva ancora avuto il coraggio.  

Così Martino e la Gianna non avrebbero comunque potuto sposarsi, perché, essendo la Gianna ancora minorenne, occorreva la firma della patria potestà. Firma che Pietro era ben lungi da apporre. 
Volevano sposarsi entro quell’anno del ’49, ma, visto com’erano andate le cose, dovevano attendere il compimento dei 21 anni della Gianna, il 17 gennaio 1950. 
Passò una settimana da quell’annuncio di Martino a Pietro e all’Alma e, quando, la domenica successiva, Martino passò a prendere la Gianna per andare al cinema, notò qualcosa di diverso in casa. 
Sopra al mobile della cucina c’erano delle bottiglie di liquori fatti in casa, secondo l’usanza di allora. Cos’era successo? 
Durante la settimana, l’Alma aveva a lungo discusso con Pietro, dicendogli che comunque loro si sarebbero sposati in Comune appena possibile, anche senza il suo consenso. 
Per Pietro era divenuta una questione di principio. 
Ma poi si arrese all’evidenza e firmò il suo assenso. 
La mattina del 7 gennaio 1950, i due si sposarono. Con la Gianna ancora minorenne.

Racconta Martino.

Suo padre, per di più, ci regalò la stufa economica, la tavola e quattro seggiole. Tutto in legno massiccio! 
Il matrimonio venne celebrato nel Comune di Sasso Marconi, dal vicesindaco Rossi. Il sindaco era allora Guido Bertacchi. 
Erano le 9 di mattina, era molto freddo e c’era la neve. Così dalla Fontana andammo al Sasso con la macchina del “servizio pubblico” di Giovanola.
  

La Gianna completa il racconto.

Quando ritornammo a casa, mia madre aveva preparato il rinfresco, con dei pasticcini e bottiglie di liquore, naturalmente tutto fatto in casa. C’erano gli amici e tutti i parenti. 
Ma noi lasciammo presto gli invitati, perché dovevamo prendere il treno da Bologna per andare a Firenze, in viaggio di nozze. 
Al nostro ritorno, a mezzogiorno del giorno dopo, seppi che tutta quella gente era rimasta lì, anche dopo la partenza degli sposi, finché mia madre, poveretta, dovette inventare un modo per far saltar fuori la cena a tavola per tutti. Mise su una pentola di brodo, chiesero in prestito una camera dell’appartamento di fronte e apparecchiarono lì. Così la festa poté continuare.

Passati due anni, nacqui io e, dopo altri sette anni, nacque mia sorella.

 

Manuela Righi

 

 

 

 

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