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Poi a Ingegneria ne arrivavano dentro sempre, di tutti i colori ne arrivavano, eh; uno lo bruciarono con il fornello. Poi capitò che c’era uno che faceva il mercato nero delle sigarette, che stava sopra alla Pieve del Pino, Tossani Guerrino, era della mia classe, non so neanche se è morto o è ancora al mondo.

 

 

Piroti                                                                                          

 


Testimonianza di LIDOVINO BONAFEDE “Piroti" raccolta il 27 gennaio 2009 a cura di Renato Sasdelli per gentile concessione del curatore e del sito ANPI di Pianoro.

 

Bonafede, come è successo che è stato arrestato?
Mi hanno arrestato a Bologna l’11 febbraio 1945 in Via Castagnoli al numero 1. Ero fermo dentro lì, perché eravamo sfollati da qui, da Pian di Macina, i tedeschi ci avevano mandato via perché ormai c’era già il fronte. Siamo andati dentro al magazzino della Farmacia Zarri, perché mio cognato Mario era a fare l’autista con Zarri e portava le medicine e le distillazioni da un posto all’altro.L’hanno arrestato in un rastrellamento e perché la cercavano?
No, no cercavano mio fratello Bonafede Franco, era nella 7a GAP ed è stato decorato con la medaglia d’argento, perché hanno avuto un combattimento in Via Ernesto Masi, in due. Uno è scappato invece lui è rimasto ferito, ha perso l’occhio e poi ha preso una schioppettata in una gamba. I repubblichini lo cercarono ma non l’hanno mai preso. In seguito mio fratello mi avvicinò e potei parlare con lui; mi raccontò che era ferito e disse a una signora: «Sono un partigiano. Se volete aiutarmi, aiutatemi».
Questa signora l’ha preso, l’ha coperto con una mantellina e l’ha portato fuori dal pericolo, fino alla base. Mai saputo come si chiamasse, quella ragazza.
Mancando la bicicletta, l’altro va via, sarà andato alla base però la bicicletta di Franco era rimasta lì. A parte che erano già fatti i nomi, a parte questo, io dovevo essere quello che avevo portato via la bicicletta perché era “timbrata” Borusa. Era il nome di un meccanico che faceva le biciclette, tra le quali ne avevo comprata una anch’io, e stava subito di là dal Pontevecchio.Dopo l’arresto l’hanno portata subito a Ingegneria?
I repubblichini sono arrivati che erano le due di notte e hanno sfondato le porte lì in Via Castagnoli, subito passato il Comunale. Mi hanno caricato su «l’abbiamo preso!» C’erano altre famiglie sfollate lì dentro (anche la moglie che ho sposato io erano sfollati lì dentro) però non ci conoscevamo. «L’abbiam preso, l’abbiam preso!» uno dice: «spara, spara!» e io dico «non ho nessuna arma». Mi hanno preso, mi hanno portato fuori, non mi hanno neanche lasciato vestire, niente, come ero messo. Mi hanno caricato su un camion con due nerbate sulla faccia, che facevo sangue al naso dappertutto. Mi hanno detto che mi portavano in Certosa, e poi via, siamo andati in altri due posti, non ricordo la via. Dicono «Lo portiamo alla Certosa». Io non so neanche girare Bologna; a Porta Zamboni c’ero stato, ero stato a Porta Castiglione, ma alle due della notte non sapevo mica dove andavo a finire. Prima di arrivare all’Ingegneria hanno caricato il sarto della federazione comunista, come si chiamava? Hanno arrestato anche lui. Ha scritto “Buonanotte babbo”, è su “Epopea partigiana” [è Francesco Leoni]. Quel ragazzo che lui parla che è stato castigato lì dentro a Ingegneria, e poi più visto, sono io.
Ho visto venire giù quel ragazzo che è stato messo nudo su un fornello; adesso non mi ricordo il suo nome [si tratta di Ramon Guidi, “Stracchino”].
Insomma, mi hanno portato subito là e poi hanno cominciato a picchiarmi perché dovevo fare i nomi. «Abbiamo preso il fratello», dicevano, «fa lo stesso; sarà l’esca per quello là». Mio fratello invece si era ossigenato i capelli ed era scomparso, però era diventata un’arma per me che ero là dentro.
Mio babbo era andato a Pianoro che c’era Tarozzi, era podestà prima della repubblica sociale, era andato da Tarozzi per cercare di farsi dare una lettera da portare a Nardini che era segretario del fascio, il reggente di Pianoro. Allora Nardini invece, visto come andavano le cose, aveva già tagliato la corda e si è salvato. Allora pensarono di andare a trovare una che abitava qui in confine con noi che la chiamavano “la matta”, “la mâta dla Cà dal Cócc”; si chiamava Mattei Marta. Si diceva fosse una ausiliaria col grado di Maggiore. La Ballerini e mio babbo andarono da questa signora e dopo due giorni arrivò questa signora, “la mâta”. Io ero là, messo male, eh, e poi fu proprio quel giorno che quel caporalmaggiore aveva preso Stracciari, ci conoscevamo perché ci siamo visto tante volte, però non aveva alzato la faccia. La signora fa: «Chi è che si chiama Bonafede?» «Sono io»; «cosa hai fatto?» «Mi accusano di robe che io non so niente. Noi siamo in dieci in famiglia, io ci ho il certificato di riforma militare e non ho bisogno di cercare altre cose». Dice: «Il colonnello Serrantini è al fronte, non so quando potrò incontrarlo o vederlo. Non ti posso garantire niente se posso fare qualcosa».
Invece dopo di allora proprio quella notte lì mi hanno messo la maschera cinque volte, la maschera antigas chiusa. Te caschi per terra e sei già finito. Uno, poveretto, se l’è fatta addosso. Io non me la sono fatta addosso perché non avevo niente indosso, ero nudo legato a un seggiolone, e tante botte sopra… ci siamo capiti, dove sentivo più male. Volevano dei nomi e poi che avessi confessato che la bicicletta l’avevo presa io, invece non era vero. Dissi che sapevo che Franco era via, l’avevo visto che l’avevano vestito da milite, era di leva, era ritornato a casa e poi non l’avevo più visto. Invece l’avevo visto, perché dopo siamo andati incontro a tante cose.
Poi a Ingegneria ne arrivavano dentro sempre, di tutti i colori ne arrivavano, eh; uno lo bruciarono con il fornello. Poi capitò che c’era uno che faceva il mercato nero delle sigarette, che stava sopra alla Pieve del Pino, Tossani Guerrino, era della mia classe, non so neanche se è morto o è ancora al mondo. Ci siamo trovati dopo due giorni, io gli dico: «a te non fanno mica niente, sei implicato in qualcosa?» «io no» «ma allora domani o domani l’altro te vai a casa». Ercolessi Graziano, in Via del Borgo fu arrestato, ed era uno che stava qui a Pian di Macina. Ci siamo incontrati dopo due giorni. «Beh, com’è che sei qui?» dice: «mi hanno detto: sei nato in un brutto posto e poi stai in un brutto posto». Gli dico: «te domani al massimo vai a casa». E infatti il giorno dopo va all’interrogatorio e mi fa: «oh, ciao Bonafede, vado a casa». Dopo tre giorni l’hanno trovato morto in cantina; e si vede, mi sa che quelli lì l’hanno cercato ancora per ammazzarlo, e buonanotte suonatori. Era Ercolessi Graziano.
Dopo di allora, per me interrogatori alla notte, alla mattina, a tutti gli orari. Un ufficiale, con un rapporto che studiava, mi fa: «io e te ci conosciamo» io dico: «non è vero niente. Se lei vuole confermare quello che dice, se ci conoscevamo ai punti che dice, uno dei due non c’era più. È tutta una bugia che si inventa». Insomma, io ho sempre avuto lo spirito di rispondere nel mio modo.
Di quelli che erano con me ricordo: Stracciari, che era di San Giovanni in Persiceto e dopo pochi giorni l’hanno mandato via; poi quello che hanno bruciato sul fornello; poi “Garibaldi” [si tratta di Oscar Padovani], che era proprio un bel soggetto; poi un altro che era nell’ANAS e non mi ricordo più come si chiamava. Ne ho poi trovati molti altri che non conoscevo.Oltre a Serrantini, si ricorda nomi dei fascisti che picchiavano?
Mi ricordo solo all’”investigativa”, quando mi hanno chiamato per l’ultima volta. Questa donna m’aveva detto: «non so se potrò fare qualcosa». Sono passati venti-venticinque giorni però non si vedeva nessuno. Un bel giorno, dopo pranzo, «Bonafede, fai il fagottino, prendi la tua roba». Dico: «addio, io vado via» perché cosa puoi andare a pensare? Avevo già saputo di quei due in Via Falegnami che li lasciarono andare poi, quando erano già un pezzo là davanti, gli diedero una bella segata a metà. In Via Falegnami, ricordo ancora quello lì. Insomma, mi hanno portato su e hanno cominciato a interrogarmi. C’era la “Vienna” che era stata una staffetta. Lei non interrogava, ma bastava un suo segno e te eri già steso, non racconto bugie. C’era Berti e c’era Monti che gli mancava un occhio o guardava che storceva l’occhio. Fai conto di vedere… peggio del dottore che abbiamo adesso; quando fissava io dicevo: «mah, guarda solo con un occhio». Ecco, quello lì fu l’ultimo interrogatorio. E questo qui, il più giovane, sarà stato il colonnello Serrantini?, insomma disse: «Lei potrà ringraziare soltanto una persona», e io dico: «appena lo conosco, o ho il piacere di conoscerlo, lo saluto». Poi disse: «può andare a casa, non si allontani», non ero mica a casa, ero in una cantina, «non si allontani da lì». Quando arrivo alla Porta Saragozza, trovo la “matta” e mi dice: «Bonafede, non andare a casa, và dove vuoi ma non andare a casa», perché erano là giorno e notte e non lasciavano più vivere non solo la nostra famiglia ma anche le altre sei-sette famiglie, non le lasciavano più stare. È così.Quindi lei è rimasto a Ingegneria da quando l’hanno arrestato l’11 di febbraio ’45 fino al 6 di marzo sempre lì? Le stesse leggi repubblichine consentivano all’Ufficio politico investigativo di trattenere gli arrestati per non più una settimana; dopo di che lei avrebbe dovuto essere rilasciato o portato a San Giovanni in Monte.
Sì, sono stato sempre lì, non ho mai cambiato fino a che non mi hanno detto «può andare a casa».
Adesso racconto un’altra cosa. Tutte le mattine, prima di andare agli interrogatori, si presentava un ufficiale e diceva: «Ehi, oggi prendiamo tuo fratello, che vogliamo impiccarvi tutti e due insieme, facciamo la coppia».
Torno indietro un passo.
Mia sorella Cecilia, due mattine dopo, non girava mio babbo per paura, venne per vedermi e la trattennero dentro anche lei, però non dove ero io, la misero da un’altra parte, non so dove, io non ho girato là dentro. Ho fatto quei ventitre-ventiquattro giorni proprio sempre in quella cella. Non lo so di preciso quanti giorni abbiano tenuto Cecilia, perché non l’ho vista. Perché io da là l’ho imparato da questa signora che si chiamava la Ballerini; lei la lasciavano venire dentro. I miei stavano in comunicazione con lei che abitava qui a Pian di Macina. La Ballerini era poi una zia di Ballerini Eros. Allora lei ha avuto comunicazione due o tre volte, che mi ha portato della roba da mettermi addosso; e poi del resto non veniva mica nessuno.Ricorda il giro che ha fatto dentro a Ingegneria, dove era la cella e dove andava agli interrogatori?
Ero a pianterreno, almeno mi sembra, non ho fatto delle scale per andare giù. Sono andato dentro da Saragozza; ricordo che davanti all’edificio c’era un piazzalino, ma dentro l’edificio non mi ricordo, perché sono andato dentro che ero già ridotto.... Dopo mi chiamavano nelle sale dove c’erano loro che erano là che mangiavano, che bevevano. Per andarci mi sembra che c’era una scalettina.
Non avevamo gabinetto nelle celle, dovevamo fare i bisogni sul pavimento. Con tutta la sporcizia che c’era, un bel giorno hanno detto: «Chi vuole avere un permesso di poter uscire nel cortile tre o quattro ore, sgomberiamo tutta questa puzza».
“Garibaldi”, l’avevano portato fuori per un rastrellamento, era tornato con delle balle di paglia. Allora ci fu chi aderì allo sgombero di questa m____. Finimmo che andavamo là che c’era una scalettino, mi sembra che si andasse su che c’era una specie di gabinetto, ma non è che ci fosse l’acqua, era tutto disfatto.
Invece all’ultimo interrogatorio non ricordo più di preciso se ho fatto lo scalone, perché la mia impressione era quella di dover morire lì, buonanotte suonatori, e non ho osservato.
Un’altra volta hanno preso una persona e quando venne dall’interrogatorio piangeva «Ho fatto dei nomi, mi dispiace, ho fatto dei nomi», era una disperazione, «però uno sono riuscito per mezzo di uno ad avvisarlo». Ma bisogna capirlo, se ha fatto dei nomi, con quello che si vedeva lì, era già finita la storia se ci cascavi dentro. Io sono stato interrogato venti-venticinque volte e battevano sempre su quel punto: «Lei conosce tutti suoi amici, se parla dopo può fare quel che vuole, dopo lei è già libero». Ma io dicevo «eh, già libero!» avevo sempre in mente quei due in Via Falegnami, e poi non ci sono stati solo quelli lì. Quando hai cominciato a cantare, te sei già finito. Pensavo: io ormai ci sono cascato dentro; allora mi ammazzeranno ma nei pasticci non metto nessuno. Figurati te, noi qui avevamo come una base, e ne abbiamo mandati diversi dalla “Stella Rossa”, come per esempio Giacometti Spartaco, che era di Bologna però aveva sposato mia sorella Cecilia e stava al “Pálazz di róssc”, ci si andava per il Molino Parisio. Si chiamava così perché confinava lì dove scaricavano tutti i ruschi, c’erano tutte le donne che andavano a scegliere.E quando è uscito da Ingegneria?
Vado giù, vado alla caserma “Pala”, non sapevo dove andare, perché non sapevo mica girare Bologna. C’era la caserma “Pala”, c’era la “Cialdini”; c’erano tutti gli sfollati. La “Pala” era giù dalla Nosadella e là sopra c’era la “Cialdini”. Allora mi sono recato là perché sapevo che c’erano tutti quelli di Pian di Macina. Come arrivo là, trovo “Cirulein”, si chiamava Mattei Luigi, che era là dentro sfollato con la famiglia. È stato decorato anche lui, la medaglia d’argento. «Beh, com’è che sei qui?» Dico: «Dio bono, come faccio adesso! Mi hanno detto che posso andare a casa ma io non so più da che parte andare, per andare in Via Catagnoli». Perché sapevo girare Bologna, ma non conoscevo i nomi delle vie, non li guardavo mai. Andavo giù per una strada e su per l’altra, a piedi o in bicicletta, e allora non c’erano divieti come adesso. Mi dice: «Va’ a casa, va’ via subito perché erano qua che ti cercavano adesso». Non ero ancora venuto fuori da là, da Ingegneria. Quella che le dicevano “la mâta”, la Mattei Marta, che abitava di sopra, me lo disse: «dài, non andare a casa, vai via». E da lì mi sono fermato da una famiglia che mi ha detto «Sta’ qui con noi, che non ci conoscono».
Alla mattina è arrivato mio babbo e mi ha portato in Via Mirasole che avevo zia Caterina, che avevano dato un posto a lei e a Marino, che era il più piccolo. Sono andato lì perché in Via Solferino, lì vicino, c’era un’osteria dove bazzicava sempre papà. Il padrone, era Stanzani, gli dice: «Portalo bene dalla Colombazzi Caterina». Sono stato lì forse una settimana. Da lì sono andato dopo, sempre per mezzo di questo Stanzani, da un suo parente, era vicino a Via Castagnoli. Sotto c’era un cinema che si chiamava Odeon. Così sono arrivato quasi fino alla fine di marzo.
Un bel giorno, facevano un film “Sangue e arena”, all’Odeon. La Viviana si prende di là, ci mettiamo d’accordo, dico: «ci troviamo per andare a vedere quel film lì» perché io l’avevo già visto, era un film che mi piaceva tanto. Vado dentro al cinema, io e lei, dopopranzo: la prima volta che sono andato fuori. Quando hanno finito il primo tempo, poi si spengono tutte le luci che comincia il secondo tempo, guardo da una parte e vedo che avevano bloccato tutte le uscite e le entrate.Erano tedeschi o repubblichini?
Macchè tedeschi! I tedeschi, neanche là all’Ingegneria io non ho mai visto un tedesco; c’era solo la “investigativa”. Allora, capisci, tutto in un bel momento, alè, uno accende una luce e poi con una lampadina di qua e di là e un’altro è venuto lì da me. La lampadina nella faccia e una rivoltella dice: «Non è lui». Appena si è spento tutto, pianino pianino mi sono alzato su e poi sono andato a casa e sono tornato nel mio rifugio. Io ero diventato come un ostaggio, per il fatto di mio fratello; tutte le mattine andavano a dire: «oggi lo prendiamo, lo prendiamo».
La “Vienna” era una bella donna, io me la ricordo, era una bella donna però quello che ha fatto… e poi è andata, m’han detto, nelle monache pentite. La “Vienna” ha fatto come ha fatto “Cacao”, stato preso, che era nella“Stella Rossa”. Si chiama Canova Giuliano; era stato su alla “Stella Rossa”, perché ci sono andato io, con il povero Mario, ci sono stato due o tre volte lassù. Ci conoscevamo bene, era uno del paese, come ci conosciamo noialtri, un cinno. È sempre stato un ignorantaccio “Cacao”, e si è dimostrato. Lui lì è stato preso e allora dopo si è messo al servizio delle SS, e l’hanno fatto fuori a Bologna nella caserma “Pala”.Chi l’ha fatto fuori? I fascisti? I tedeschi?
No, no non lo so. È stato mi sembra il Natale o la vigilia di Natale, insomma verso la fine del 1944. E lui, a Marzabotto conosceva i nomi di tutti i contadini che avevano collaborato con i partigiani, lui lì lo sai quanti ne ha sulla coscienza?
Era così nei rastrellamenti. Invece tanta gente sapeva ma sono stati zitti. Lo sai che davano un chilo di sale a chi denunciava un partigiano, e non è una fandonia questa. Quando io sono riuscito a scappare da qui, e mi sono nascosto, quella Paselli lì mi ha coperto i piedi quando sono venuti i tedeschi in un rastrellamento e io ero sotto a della paglia. Mi hanno girato intorno e poi con il moschetto, sempre stando sopra, io ero steso così e loro mi sono passati tra le braccia senza toccarmi. Dopo sono scappato e hanno tirato due mitragliate, ma io non le ho prese: perché quando sono andato su per scappare, ho sentito che parlavano e dico: «Dio bono, ci sono i tedeschi qui»; sono saltato dentro un roveto, c’era un bel salto di tre o quattro metri, e sono stato fermo lì. Loro hanno sentito tutto il trambusto, hanno cacciato due o tre raffiche con le maschinenpistole, però sono passate sopra. Se lo racconto nessuno ci crede. Se mi vedevano ammazzavano tutti quelli là. Erano venti-venticinque persone tutte fuori dalla porta, non dalla porta, fuori dal rifugio; perché avevano detto con i Paselli, avevano sei bambini, «qual è, qual è?». E io dico «vado sotto al materasso», ma dicono: «buttano dentro delle bombe!» sono scappati tutti, sono scappato anch’io in un posto dove facevano da mangiare. C’era della paglia, io mi infilo lì sotto, ma m’erano rimaste le scarpe di fuori; la Paselli venne indietro, ohi era una bambina, indietro indietro e mi coprì le scarpe. Fu la salvezza di tutti quanti, che lì poi avevano già ammazzato uno, un certo Cavara Cesare, che l’avevano ammazzato in questo rastrellamento.Ha più saputo niente dei fascisti di Ingegneria?
Dopo la guerra ero a casa senza lavorare, non si prendeva mica niente. Avevo fatto la domanda di andare a San Giovanni in Monte a fare il secondino; allora mi mandano a chiamare. Quando sono in Via Cartolerie ho trovato un ragazzo di quei repubblichini che erano là dentro a Ingegneria, perché erano tutti ragazzini, tutti cinnazzi.
Allora, ero in bicicletta con la moglie, no non eravamo ancora sposati, e venivo giù verso la piazzetta dei Garganelli per Via S. Rita. Quando arrivo lì «Dio bono, ma quello là è quello che mi ha spuncionato nella schiena quando andavo al gabinetto».
Allora tàc, gli taglio la strada con la bicicletta che ci avevo la Viviana sopra. Gli dico: «Mi conosci?» lui fa: «perché?» e io «guardami mò bene». Dice «Sì, un po’ di vista» e subito fa «però io non ti ho fatto del male» subito lo dice, capito? Si raduna tutto un branco di gente, fanno: «Beh, poi non gli fa niente?» «Io potrei essere suo padre di loro lì, di tutti quei cinni». Lui dice «Io tutte le mattine vado a firmare» perché era stato preso e andava a firmare la presenza in Via Cartolerie. Cosa c’era lì, c’era un commissariato?
Allora per finire, vado là, mi presento a San Giovanni in Monte per andare al servizio. Arriva uno, mi comincia a guidare dentro: «Questo ha fatto di qua, questo di là, questo ha l’ergastolo» e io non vedevo l’ora che finisse tutto il giro. Avevano fatto un mucchio di arresti subito dopo la Liberazione, ma poi ne sono anche scappati, ci fu un’evasione. Sento: «Bonafede! Cosa fai lì?» e mi si gelò il cuore. Dentro alla celle con noi a Ingegneria c’erano anche dei repubblichini. C’era chi era lì perché aveva commesso qualcosa e chi era messo per ascoltare. C’era uno, non eravamo amici però ci conoscevamo, gli chiedo: «Perchè ti hanno messo dentro?» Dice: «Sono andato a vedere in un posto che c‘erano tante bestie e dei buoi; ce n’erano due che avevano già la mordacchia, ho preso la mordacchia, sono venute con me» e era andato a venderle. Altri erano lì per sentire se dopo le botte parlavamo tra noi: «ha detto niente quello là?». A me hanno dato una castigata che ho tribolato e tribolo ancora.
Durante una inaugurazione, quando qui a Pianoro hanno scoperto dove c’era il rifugio, ho parlato con Rocca, Rocca Quirico, e mi ha detto che è stato anche lui a Ingegneria. Ma non era nel periodo che ci sono stato io, non so se era nei partigiani o no, non abbiamo parlato perché non c’era il tempo.
Una rara immagine scattata nel periodo bellico. Nato a Pianoro il 7.6.1916 da Domenico e Maria Burzi; Ivi residente nel 1943. Operaio. Licenza elementare.
Militò nella 62.a brg Camicie rosse Garibaldi ed operò sull'Appennino tosco-emiliano.
Fu incarcerato a Bologna dall'11.2.1945 al 6.3.1945. Riconosciuto partigiano dall'1.11.1943 alla Liberazione.

 

Fotografia di Lidovino Bonafede (Piroti)

 

   
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