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RACCOLTA DI VIDEO INTERESSANTI DISPONIBILI IN RETE
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Armadio della Vergogna a Blu Notte di Luccarelli. Documentario molto ampio trasmesso dalla RAI. Durata 1h58'43" |
Domanda molto interessante di Luigi Pasquali a Andreotti sull'Armadio della Vergogna. Durata 4'34" |
Lezione del Liceo Righi di Bologna. Video fatto dal gruppo di studenti/insegnanti. Durata 9'47" | ||
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S.Anna di Stazzema, la strage senza colpevoli. Documentario RAI all'interno di "La Storia Siamo Noi". Durata 18'07" |
Una mattina di Agosto S.Anna di Stazzema. Documentario RAI presentato da Minoli. Durata 57'01" | Lo Stato di Eccezione. Documentario realizzato durante il processo a La Spezia. Dal sito della RAI. Il documentario è preceduto da 36" di pubblicità. Durata 56'10" | ||
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Quello che abbiam passato 1/4. Documentario di testimonianze di superstiti della strage di Monte Sole. Durata 11'05" |
Quello che abbiam passato 2/4. Documentario di testimonianze di superstiti della strage di Monte Sole. Durata 10'44" | Quello che abbiam passato 3/4. Documentario di testimonianze di superstiti della strage di Monte Sole. Durata 12'05" | ||
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Quello che abbiam passato 4/4. Documentario di testimonianze di superstiti della strage di Monte Sole. Durata 11'50" | Nome di battaglia Ming. Intervista al partigiano della Stella Rossa Venturi. Durata 11'38" | Quanto resta della notte?. Documentario su don Dossetti. Dal sito della RAI. Il documentario è preceduto da 45" di pubblicità. Durata 49'21" | ||
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Intervista a don Giuseppe Dossetti 1/5. Durata 7'27" | Intervista a don Giuseppe Dossetti 2/5. Durata 6'50" | Intervista a don Giuseppe Dossetti 3/5. Durata 5'38" | ||
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Intervista a don Giuseppe Dossetti 4/5. Durata 9'57" | Intervista a don Giuseppe Dossetti 5/5. Durata 9'23" | Presentazione del libro "Il Massacro" in un servizio RAI ambientato a Casaglia. Oltre all'inviato parlano: Elide Ruggeri (superstite) e Luca Baldissara (autore). Durata 7'21" | ||
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La strage di Monte Sole raccontata ai bambini, per non dimenticare. Durata 7'49" |
Da Barbiana a Monte Sole. Documentario del liceo scientifico Copernico di Bologna. Durata 12'28" |
INTERVISTA ESCLUSIVA a Udo Sürer, figlio di un ex sergente delle SS Josef Majer. |
LINK a siti interessanti
http://www.parcostoricomontesole.it/ | Parco storico di Monte Sole. Sito istituzionale |
http://www.montesole.org/ | Sito della Scuola di Pace di Monte Sole |
http://certosa.cineca.it/montesole/index.php | Strage di Monte Sole. Nomi, località, fotografie |
https://sites.google.com/site/progettolineagotica/ |
Linea Gotica e temi legati al 1944-45. Contiene molti documenti, immagini e informazioni |
www.lineagotica.eu | Linea Gotica e temi legati al 1944-45. E' la nuova versione del sito precedente |
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Chi uccise don Giovanni Fornasini
Sono nato a Marzabotto, e gli eventi della strage mi sono sempre stati famigliari. Ho conosciuto fin da giovane molti degli scampati: superstiti che avevano ricordi segnati da quegli eventi. Ero amico di Mario Lippi, che raccontava alle scolaresche di ciò che lui stesso aveva vissuto a Creda, e di Benini Adelmo, che con occhi lucidi mi raccontava della moglie e dei figli uccisi a Casaglia. Poi la Vittoria Negri, che mi portò al fosso dei Roncadelli nel punto in cui c'è una piccola cascatella, dove assieme a tanti fu portata al massacro, e Dante Negri, mio suocero, che rimase ferito scappando, dopo essere stato legato ad un albero. Più recentemente ho parlato molto anche con Fernando Piretti e Francesco Pirini, che si salvarono a Cerpiano ma persero i famigliari, e con la Salvina Astrali, che per poco non rimase intrappolata dove le sorelle e la madre furono massacrate a Caprara. E con Ferruccio Laffi, che perse i suoi cari a Colulla di Sotto, con la Vittorina, la moglie del Postino, con Nino Amici, che si salvò per miracolo, e anche con Gianni Rossi, vicecomandante del Stella Rossa, con Franco Fontana, staffetta della Stella Rossa che perse tutti i famigliari, e con Firmo, superstite del massacro del Faggiolo. Della morte di don Giovanni Fornasini però non avevo avuto notizie precise. Sapevo che era un grande, che si faceva in quattro e tutti gli volevano bene, e che accorreva in soccorso nei bombardamenti e nei rastrellamenti come poteva, con la sua mitica bicicletta. Ma come mai era morto? Si sapeva che morì dopo la strage, salendo per seppellire i morti, ma non avevo mai focalizzato bene le date, forse perché mi pareva scontato che si fosse trattato di un evento casuale, una bomba, o una mina. DOCUMENTI MAI PUBBLICATI INTEGRALMENTE Recentemente il mio amico Gian Paolo Frabboni, di Traserra, in via Boschi, (guida del Parco Storico Regionale di Monte Sole e ricercatore locale) mi ha dato le fotocopie di due documenti che hanno risvegliato in me un nuovo interesse. Si tratta della relazione che il segretario Comunale Rag. Agostino Grava scrisse per il prefetto Fantozzi. In realtà tali documenti li aveva già consegnati al Comune di Marzabotto nel 2000 (nota 1), ma io ne sono venuto a conoscenza solo ora.Avevo letto in varie pubblicazioni dell’esistenza di quella relazione, e ne avevo letto stralci, ma ora, avendo il testo completo una cosa mi ha colpito: nella relazione viene indicato un solo nome quale testimone di quella strage: don Giovanni Fornasini, parroco di Sperticano. E’ lui che "ebbe il permesso dalle forze Germaniche di portarsi a seppellire i cadaveri", e quindi è lui che conosce i fatti, e che "sarebbe opportuno interrogare" per avere informazioni attendibili, scriveva il Grava (nota 2).
L’altro documento, anch'esso citato in vari testi, ma che non avevo mai potuto leggere integralmente, e che completa il quadro, è la memoria del capo della Provincia di Bologna Fantozzi. In esso Fantozzi racconta che il segretario comunale di Marzabotto andò a fargli rapporto il 2 ottobre. In realtà Grava andò a fare rapporto al viceprefetto De Vita già il 1° ottobre, e venne "trattenuto" fino al 4 ottobre. Nel 1946 il Gava testimoniò che Fantozzi non lo aveva creduto quando gli raccontò "l'infame strage di Marzabotto"; a suo avviso Fantozzi si attivò solo dopo che di quei fatti ne parlò Radio Londra, e fu allora interpellato dai suoi superiori (Il Massacro, pag 375).
La memoria di Fantozzi fu scritta dopo la fine della guerra, il 20 marzo 1946, su richiesta del capitano di polizia Carlo Galli che indagava sui fatti di Monte Sole. Fantozzi cercò evidentemente di presentare il proprio caso nel migliore dei modi, essendo egli stato un funzionario fascista di alto rango coinvolto nel tentativo di nascondere un crimine di guerra, ma nondimeno fornisce alcuni riferimenti a fatti che furono conseguenti alla diffusione delle notizie provenienti dal segretario comunale Grava, e quindi è molto utile per capire i retroscena (nota 3). Mi ha colpito in particolare che il Fantozzi ne avesse parlato con Mussolini, il quale pare ne parlò con Hitler. Ho pensato che dopo il coinvolgimento di questi alti vertici, la citazione ufficiale di don Fornasini quale testimone divenne la sua condanna a morte. In realtà Fantozzi nel documento afferma che lui si lamentò con Mussolini e Mussolini si lamentò con Hitler, ma i fatti che seguirono (la successiva smentita sul Resto del Carlino, e l'uccisione di don Fornasini) dimostrano per me l'infondatezza di questa versione.
RADIO LONDRA PARLO' DELLA STRAGE Evidentemente la strage di Marzabotto era diventata un problema politico anche perché ne aveva parlato “Radio Londra”, come riferisce Lippi (nota 4). Lo stesso Lippi, nel suo “La Stella Rossa di Monte Sole” offre una visione molto realistica della sequenza degli eventi. Dalla presentazione verbale dei fatti al viceprefetto De Vita e a Fantozzi da parte di Grava l'1 e il 2 Ottobre (a strage ancora in corso), alla richiesta dello stesso Fantozzi di una relazione scritta (evidentemente per poter poi scaricare su di lui le ire dei suoi superiori), fino alle pressioni tedesche ed alla riunione dal Fantozzi di tutte le autorità per decidere la strategia il 10 ottobre: presenti il generale Werchien, il colonnello Eugenio Dolmann, rappresentante delle SS in Italia, il console generale tedesco a Milano Von Halem, il funzionario dell'ambasciata tedesca dott. Sacht, e il prefetto Testa. E non appare casuale che il famigerato articolo del Carlino, che afferma "... le solite voci incontrollate .." sia datato proprio 11 Ottobre 1944, cioè proprio il giorno dopo la riunione da Fantozzi. Nella stessa pagina in cui pubblicava la smentita della strage, il Carlino dava conto in modo riverente anche della visita in città del Console generale tedesco barone Von Halem, il quale, secondo me, aveva partecipato alla riunione con Fantozzi per decidere come zittire quelle voci! Sempre dal libro di Lippi troviamo anche una testimonianza del direttore de Il Resto del Carlino di quel tempo raccolta da Nazario Sauro Onofri, il quale conferma l'origine nefanda di quel trafiletto, dettato per l'appunto del console tedsco Von Halem (nota 5). IL MOVENTE DELL'ASSASSINIO DI DON FORNASINI Il segretario comunale di Marzabotto fu evidentemente accusato di raccontare bugie. Ma non era lui ad avere le informazioni dirette. Lui non era mai stato sul posto a vedere i morti. Lui aveva visto alcune cose da lontano, ma colui che lo aveva avvisato di quanto era accaduto, e che le conosceva per averle vissute direttamente, e per avere avuto il permesso di seppellire quei morti era don Fornasini. Ed appare ora evidente che quando il Carlino afferma "voci incontrollate" si riferisce alla voce di don Giovanni Fornasini. Perchè il segretario Grava lo aveva citato apertamente davanti alle autorità fasciste e naziste come suo testimone attendibile. Come colui che poteva essere interrogato. Colui che portava le notizie di prima mano! Nella relazione al capo della provincia Fantozzi scriveva: "Sarebbe opportuno interrogare il parroco di Sperticano, Don Giovanni Fornasini per sapere l'entità dei morti e l'elenco nominativi dei medesimi".
Secondo la mia versione in quella riunione del 10 Ottobre che si tenne da Fantozzi i gerarchi nazifascisti avevano deciso come procedere per far tacere quelle voci: rabbonire il segretario comunale di Marzabotto, funzionario sicuramente sensibile alla sorte dei suoi concittadini, ma pur sempre inserito in una organizzazione assai condizionante, poteva essere una impresa fattibile. Bisognava però far tacere anche quel testimone così coraggioso, e così amato dai suoi parrocchiani, ma così incontrollabile, anche dalle gerarchie della chiesa. L’unica possibilità per zittirlo era di farlo sparire, e siccome il territorio di Sperticano era ancora sotto il diretto controllo di Reder, il quale obbediva ancora agli ordini del gen. Max Simon, per tramite del magg. Helmut Loos, dei servizi segreti delle SS (insomma la squadra che aveva compiuto il massacro); non sarebbe stato difficile trovare un sicario.
chiesa di Sperticano - foto di s. muratori |
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don Giovanni Fornasini a San Luca, coi suoi parrocchiani, dal libro di D. Zanini "Marzabotto e dintorni" Bisognava però agire in modo discreto per evitare ulteriori contraccolpi politici, perchè le notizie dovevano essere cancellate, e don Fornasini doveva sparire nel mistero. Dopo tutto quanto ho letto, questo è a mio parere il movente di quell’assassinio! Ed i mandanti sono fra i nomi di quella riunione del 10 ottobre in provincia. Viene riportato da vari testi che la sera prima dell'uccisione una delegazione tedesca abbia chiesto al parroco di festeggiare assieme a loro il compleanno del capitano, e che l'opposizione del parroco al coinvolgimento di alcune ragazze sia stata la causa di un litigio. Io penso che il litigio sia stato provocato ad arte per giustificare l'assassinio su commissione già programmato in precedenza. E' probabile che prima di ucciderlo le SS abbiano discusso con lui per capire se voleva ritrattare, e ritirare le denunce che andava facendo attraverso il segretario Grava. Ma don Fornasini non aveva paura di morire, e non accettò di fingere di non sapere per salvare il proprio corpo. Altri lo avevano fatto, ed i loro nomi non figurarono nel rapporto di Grava. Ferruccio Laffi racconta che il 1° ottobre del 1944 Zebri andò a Panico a chiedere a don A. Serra se andasse a dare la benedizione prima della sepoltura ai 34 morti di Colulla di Sopra, Colulla di Sotto e Abelle; i corpi, massacrati il giorno precedente, giacevano davanti alle loro case, ed i pochi superstiti volevano seppellirli. Don Serra rispose di no, perchè "lassù tira una brutta aria". (testimonianza di Ferruccio Laffi, che era presente, ed a Colulla di Sotto perse 14 famigliari). Vedi Video seguente.
La motivazione della medaglia d'oro al valor militare che fu conferita a don Fornasini il 19 maggio 1950 recita fra l'altro: "Voce della Fede e della Patria, osava rinfacciare fieramente al tedesco l'inumana strage di tanti deboli ed innocenti, richiamando anche su di sè la barbarie dell'invasore e venendo a sua volta abbattuto, ..." . (nota 6). Immagino che nella stesura di questa motivazione sia stato profuso un serio impegno di ricerca, e dopo quanto ho qui riportato per me è diventato più chiaro il senso di quella medaglia d'oro. Don Fornasini è stato colui che ha alzato la voce, e non si è voluto adeguare ai tanti che hanno taciuto: per paura, o per difendere una ideologia, o per ubbidienza ai superiori (nota 7). Solo, contro il conformismo sfrenato dei fascisti e contro l'esercito invasore, senza fuggire nei boschi, ma denunciando a viso aperto. Ed è giusto che il Valore Militare di questa forza sia contrapposto alla viltà di coloro che ne decretarono la morte. Ecco ciò che ho pensato appena ho avuto occasione di leggere i testi integrali dei due documenti di Grava e Fantozzi già citati. Fra l'altro mi sono anche ricordato di avere fra i miei libri un ciclostilato dalla copertina rossa, fatto dal circolo don Fornasini di Porretta, che non avevo mai letto. Lo avevo custodito da quando uscì. E’ stata l’occasione per leggerlo, ed ho potuto constatare quanto sia ben fatto e ricco di informazioni. Visto che ne furono ciclostilate solo 300 copie, ho pensato che sarebbe stato buona cosa metterlo in rete. Ho chiamato l’autore Pier Angelo Ciucci, di Porretta Terme, il quale ha gentilmente acconsentito. Così l'ho allegato qui (nota 8). LE IPOTESI DEL CIRCOLO FORNASINI DI PORRETTA Fra le varie ipotesi sulla morte di don Fornasini, Ciucci esplora le seguenti: quella della morte accidentale, per una bomba; quella dell'uccisione a causa di un litigio con il capitano che festeggiava il compleanno; quella della uccisione da parte di qualche partigiano per ragioni ideologiche. Però non considera con mia sorpresa il movente da me qui ipotizzato. Forse, ho pensato, se egli avesse letto quei due documenti avrebbe cambiato idea. Nel libro (ciclostilato) di Ciucci c’è anche una descrizione dettagliata, ricostruita con testimonianze dirette, degli ultimi giorni di don Fornasini. Alla fine, per Ciucci, il probabile esecutore dell’assassinio è il capitano SS Schmidthuns, che Ciucci identifica con il capitano che salì a Cadotto il mattino del 29 settembre. Anche “Le querce di Monte Sole” di L. Gherardi, non prende in considerazione il movente da me ipotizzato. Però accoglie sostanzialmente la tesi di Ciucci sull’esecutore dell’assassinio (link 6). Dal libro di Gherardi ho tratto anche una interessante testimonianza del 24 ottobre 1983 di Nerina Moschetti, che vide don Fornasini morto il 14 Ottobre del 1944, e testimoniò che era "con la faccia al cielo. Morto ma ancora intero".(...) "Dovrebbe aver sofferto poco. L'hanno colpito al petto - Io me lo ricordo ... steso, con gli occhiali ... la sottana nera ... l'ho avuto davanti per tanto tempo". Suo zio Dario Moschetti, che in seguito fu trovato morto di fianco a don Fornasini, non era ancora stato ucciso. (nota 9). Gherardi accredita dunque l'ipotesi che l'uccisione avvenne con colpi di mitra al petto. Ed anche “Marzabotto e Dintorni” di D. Zanini, pur partendo da una prospettiva assai diversa, non prende in considerazione il movente da me ipotizzato (nota 10). Don Zanini opta per la morte accidentale, che però è smentita dalla testimonianza di Nerina Moschetti citata in precedenza. L’ipotesi di Ciucci, che ad uccidere don Fornasini sia stato il capitano Schmidthuns, sembra essere smentita nel libro di Baldissara e Pezzino, “Il Massacro” , dove viene riportato che quel capitano era caduto in combattimento pochi giorni prima dell’uccisione (che avvenne il 13 Ottobre) (nota 11). In un’altro capitolo dello stesso libro, si afferma inoltre che Schmidthuns (che andrebbe scritto Schmidtkuns) comandava la III^ compagnia, e che all’alba del 29 settembre saliva da Murazze verso Casaglia, quindi da tutt’altra parte rispetto a Cadotto (nota 12). Nonostante questo però gli autori non escludono del tutto l'ipotesi che Schmidthuns possa essere stato l’assassino di don Fornasini (nota 13). Interessante anche il commento di Olsen, nel suo “Silenzio su Monte Sole”. Egli infatti afferma che don Fornasini, dopo essere stato a Bologna, si comportava "come se fosse tenuto prigioniero". (nota 14). Non gli veniva mai concesso di muoversi. In effetti credo non sia improbabile che le autorità nazifasciste, dopo che Grava e Fantozzi lo avevano esposto quale testimone scomodo, e dopo che radio Londra aveva dato notizia dei crimini commessi a Monte Sole, lo avessero arrestato e trasferito a Bologna, e poi, decisa la strategia lo avessero inviato nuovamente a Sperticano per tenerlo sotto controllo, in attesa dell'esecuzione in un territorio di prima linea ancora controllato dalle SS della XVI^ divisione.
Stefano Muratori dic. 2012 |
per il libro su don Giovanni Fornasini scritto da Ciucci nel 1974 vedere il seguente link (ringrazio l'autore per aver concesso di metterlo in rete)
MARZABOTTO '44 don Giovanni Fornasini: di Pier Angelo Ciucci - Porretta Terme 1974
Un racconto di Don Dario Zanini: "Un pollo e due bottiglie per liberare gli ostaggi"
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Salvina Astrali - Pian di Venola 25 febbraio 2010
Caprara di Sopra, foto di Luigi Fantini del 16 Luglio 1939. Pubblicata nel libro "Antichi Edifici della Montagna Bolognese. |
Io sono nata al Palazzo di San Martino. Da lì ci spostammo, ma non so perchè in quanto ero appena nata. Il giorno che sono nata io lì a Palazzo è morta mia nonna, nella stessa ora. La stessa ora che io nascevo la nonna moriva. Infatti una volta il Comune aveva un quadro grande così per me, che poi è andato distrutto con la guerra. Dal Palazzo mio babbo si trasferì a Salgastre. Sai dov’è ? E’ lì sopra alla Quercia, dalla parte di là. E’ più alto dell’Agriturismo. E’ un podere da contadino. Eravamo una famiglia composta dalla nonna, il nonno, sette fratelli e i genitori, in più mia mamma aveva preso anche una bastardina. Mia sorella, la povera Ida, era a servizio dai Zanini di casa Serena. Io non so se il motivo di spostarci laggiù fosse perchè avevamo dei bimbi piccoli, perchè sai, i padroni di allora guardavano se la famiglia del contadino aveva delle forze buone per lavorare. Noialtri eravamo tutti ragazzetti, allora io penso che fummo costretti a trasferirci là perchè era più piccolo e mio babbo riusciva a tenerci dietro meglio. Adesso te la racconto tutta oramai. Non so per quanti anni rimanemmo lì, non mi ricordo, ma il babbo me lo ha sempre raccontato, successe che venne la macchina da battere. Mio padre era uno di quelli che buttava giù i covoni di grano nel trebbiatore. Il padrone era sotto con altri operai a togliere i sacchi di frumento, e stavano facendo le due mucchie, o le tre, non so quante. Mio padre dall’alto lo vedeva bene, e ad un certo punto si accorse che gli portò via un sacco di grano: gli rubava del frumento. Appena lui da sopra vide, venne giù con il forcone che lo voleva inforcare. Me lo raccontava sempre. E sai cosa gli capitò ? Che la sera stessa dovemmo sgomberare e andare via. Ci diede lo sfratto in giornata. Siamo stati fortunati che mia sorella lavorava dai Zanini come donna di servizio, e loro avevano queste casine ancora su a Caprara allora andammo tutti lassù, in nove o dieci tutti dentro ad un piccolo appartamento. Caprara di Sopra era un caseggiato dove abitava un contadino, e c’era un’osteria. Noi eravamo pigionanti, e come noi erano altre cinque o sei famiglie. La nostra era una casina misera, eravamo in quattro o cinque a dormire in una stanza, poi eravamo alla fame. Avevamo una miseria che era grande enorme. La povera Ida, la povera Gabriella, e la povera Paola erano già grandicelle. Avevano dai dodici ai quindici anni, e pensavano di andare a trovare da lavorare, ma non si trovava nulla.
Quando ero a Caprara, ci fu il matrimonio della zia Edmea, che sarebbe poi quella bastardina che la mamma prese con noi. Non ne aveva abbastanza che aveva sette figli, e prese anche questa bastardina. Lei era un pò più vecchietta di noi. Era circa dell’età della povera Ida, che era del 22. Fonso era del 20, Paola ..... uno ogni due anni. L’unica differenza era da Maria a me che c’è tre anni. Io sono del 28 e la Maria del 31 o 32.
Niente, fu una cosa stupenda questo matrimonio. Si andarono a sposare a San Martino poi vennero in quà e si fece da mangiare lì in casa. La sposa con lo sposo a piedi, e la processione fino alla chiesa, poi tornarono indietro e mangiarono lì a Caprara. La mamma era quella che faceva tutti i matrimoni per poter saltare il lavoro, ma allora era il nostro, ed il lavoro toccò a lei. Doveva fare lei per tutti gli altri. Dopo mangiato sai dove sono andati per il viaggio di nozza? Sopra a Monte Sole, e poi giù per la scarpata. Quando sei lì a Caprara, che vai giù per la scarpata dove adesso hanno messo un pò di catrame, era coperto di zuccherini. Ti ricordi quei bei zuccherini montanari? Poi andarono là dal pozzo, che c’era il sentiro che andava su. Il loro viaggio di nozze fu quello lì. E io quando feci la cresima, sempre a San Martino, e posso dire che ero una fortunata, la mia Santola mi aveva fatto una bellissima sottana bianca, poi arrivò a prendermi a casa sempre a Caprara con un somaro coperto di ciambelline così. Mi caricò sopra, e mi ricordo come se fosse adesso, che arrivai là alla chiesa a cavallo di questo somaro coperto di ciambelle. Gli altri erano tutti a piedi, ed io ero sopra al somarino coperto di ciambelle. Finita la cresima lei mi portò a casa sua, ai Purnarini dopo la Steccola. Ogni tanto mi vengono in mente i nomi delle case. Quel giorno mi prese a pranzo che mi fece chissà che cosa. Il prete di San Martino era Cobianchi, che poi quando morì tutti i suoi beni li lasciò ai poveri. Aveva dei soldi sai ? Anche quello lì me lo ricordo bene. Mise due persone una di quà e una di là dal cimitero, perchè fu sepolto lì a San Martino lui, con un sacchettino per uno a tutti quelli che erano andati a fare il suo funerale. Erano i beni che aveva accumulatto, almeno così aveva lasciato detto. Perchè lui aiutava ai poveri sai? Non è che se li intascasse lui, e quello che gli era rimasto lasciò detto di darli a chi andava al funerale. Di solito si fà l’elemosina al prete, invece in quel caso fu lui a rendere tutto quello che gli era rimasto: “lo dò a chi viene al mio funerale” lasciò detto.
L’unica nostra soddisfazione, quando al pomeriggio dicevano il rosario a San Martino, era che lui aveva un cannocchiale, e ci faceva guardare uno alla volta giù a Pioppe. Questo qui era il nostro divertimento. Si diceva la dottrina, che c’era anche la povera Gabriella, poi c’era anche un cappellano giovane, bellino. E mia sorella andava ad aiutarli. Perchè di gente ce n’era molta. Ogni casa aveva sette o otto bambini. Più ragazzi avevano e più avrebbero avuto possibilità di andare a lavorare poderi grossi. Ci trovavamo in gruppi numerosi di ragazzi ed andavamo alla chiesa. Quella era l’unica nostra soddisfazione. I nostri giochi erano il cucco, poi a Pasqua con le uova. Noi dovevamo anche fare dei lavoretti. Perchè mia mamma per racimolare un pò di soldi prendeva il baco da seta. Ma ne aveva parecchio, e allora ci mandava fuori nei campi che c’era quella foglia di, comè pure chiamata, Gelso ? La davano ai bachi da seta. Con una sacca e una scala andavamo su per gli alberi, quindi del tempo da giocare ce n’era poco. Ci facevano lavorare dove potevamo farlo, quello che era alla nostra portata. Ricordo che la raccolta di queste foglie era anche un pò pericoloso. Giù sotto avevamo una camera dove si tenevano questi bigattini. Era bellissimo sai ? Quando poi facevano le fusa era bellissimo. In principio ce ne voleva poco, ma dopo quando crescevano ci voleva molta foglia.
Noi raccoglievamo solo i bozzoli, poi c’era il padrone che li veniva a prendere quando aveva fatto il fusillo. A Caprara c’era solo la mamma che faceva questa cosa. E noi andavamo a raccogliere la foglia e a pulire, perchè c’era da lavorare. Tutte le mattine bisognava togliere la foglia vecchia e metterci quella nuova, con una foglia la rivoltavamo sopra, e si scossava lì, poi quando incominciavano ad andare su allora era già finita, andavano su per la foglia e facevano una rete, e loro dicevano che incominciavano a filare, poi cominciavano a fare il baco. Era bellino. Ma i primi mesi, fino a quando si ammollavano ed andavano su c’era da lavorarci, perchè dovevamo pulirli tutte le mattine. Il padrone, che abitava in Saragozza, poi li veniva a prendere per portarli giù a Bologna non so dove. Lui aveva una villa lì, ma il nome non me lo ricordo, perchè non era tutto dei Zanini su a Caprara, c’era anche un altro.
Noi comunque dei gran divertimenti ne avevamo pochi. Quello di andare a vedere il Duce quando passò fu un gran divertimento. Quando si sposò la zia vederli andare su Monte Sole, e vedere questa distesa di zuccherini giù per i sentierini. E quello di aspettare il postino quando ci portava le caramelle. Quelli erano i nostri divertimenti. Dopo poi abbiamo avuto tutto il resto.
Al tempo dell’uva andavamo a spigolare l’uva, al tempo del frumento andavamo a spigolare il frumento, al tempo delle castagne andavamo a cercare quelle, poi avevamo il posto per i conigli, quindi si andava a cercare l’erba. Quando veniva la macchina da battere noi ne battevamo sempre qualche quintale sai ? Eravamo in un mucchio, ed andavamo a raccogliere tutte le spighe che lasciavano per terra. Ne compravamo anche, ma so che ne spigolavamo sempre un bel po’, ma c’era sempre da andare in giro a cercare. Divertimenti per noi bimbi ne avevamo pochi. Al tempo delle castagne la mamma metteva su una bella calderina di castagne, poi con la ramina faceva le porzioni. Una raminata per uno a tutti. Facevamo la polenta e con una aringa mangiavamo in otto. Un pezzettino così, la tocciavamo lì, fino a quando ce n’era, poi quando non avevamo più fame di polenta finivamo l’aringa. La tenevamo per l’ultimo. Adesso che si strascina tante cose! I più grandi andavano anche a veglia, ma noi bimbi e ragazzini no. Quelli di 7 o 8 anni dovevano andare a letto, quegli altri no, loro andavano anche a ballare, facevano le sozie, si raggruppavano con un clarino, una fisarmonica, c’era sempre qualcuno che suonava. A carnevale per esempio adesso si fanno le sfrappole, allora invece si faceva la crescente fritta. Le sfrappole erano una cosa troppo da lusso. E già le crescente fritte per noi erano un lusso anche quelle. Come i tortellini, adesso ci sono tutti i giorni, allora si facevano per la festa grossa di San Martino, per Natale e per Pasqua. Tre volte all’anno si mangiavano i tortellini. Le feste le hanno quasi sempre fatte. Mia mamma si ingegnava dappertutto. Ti dirò che il pane non ce lo hanno mai fatto mancare. Ma il pane asciutto. Perchè del companatico, poca roba. Un maiale all’anno lo ammazzavamo, ma eravamo in nove o dieci dopo che andammo a pigionante sopra a Caprara. All’osteria di Caprara avevano un cavallino e ogni due o tre mattine venivano a fare rifornimento a Pian di Venola. Avevano di tutto: sale, olio, quelle cose lì. Noi poi compravamo solo il sale e l’olio eh? Non compravamo micca tante cose. Cominciammo a stare bene quando ci trasferimmo alla Villa d’Ignano. Ma anche lì ci fecero uno sgarbo: dopo che seppero che eravamo andati a contadino mandarono a casa mio padre dal lavoro della direttissima. Per tutto il tempo in cui lavorò nella direttissima doveva andare da Caprara a monte Adone a piedi, quindi doveva stare via tutta la settimana. Avevamo una parente della mamma che stava a Lagaro e lui andava a dormire là. Io avevo 5 o 6 anni, e ricordo che un mattino arrivò un uomo a cavallo. Ho poi saputo che andò a parlare con papà e disse: “ascolta mò Arrigo, se tù vuoi andare a lavorare e far lavorare anche le tue figliole, bisogna che prendi la tessera dei fascisti” Mio padre mi ha poi raccontato che siccome eravamo lì alla fame, e vivevamo solo di spigolare quello che i contadini lasciavano per i campi per campare, allora lui decise di fare quella tessera lì. Da lì poi mio padre andò in ferrovia sulla Direttissima, e le ragazze andarono a Pioppe alla Canapiera, che facevano i turni: andavano via alla mattina e d’inverno stavano giù a dormire dalle suorine lì a Pioppe. Facevano i turni dalle sei alle due, dalle due alle dieci e dalle dieci alle sei. Venivano a casa al sabato o la domenica, ora non ricordo, ma era per la loro giornata libera. Mio fratello invece lo aveva messo sulla Porrettana come stradino. Ci aiutarono subito. Poi siamo stati lassù fino a quando io feci la quinta. Andavo poi a scuola a Cerpiano, che è laggiù di sotto da Casaglia. Da Caprara andavamo a piedi fino là, ed era lunga. Le marachelle che facevamo giù per quella strada lì. Eravamo un branco di ragazzi e ci raggruppavamo per andare giù alla scuola. Nel viaggio a scuola potevamo fare anche il salto alla corda, oppure i sassoli. Si facevano quei giochi lì. Mi ricordo che i maschi erano poi tremendi, mi ricordo che una volta appiccarono il fuoco ad un bosco. Ricordo bene l’osteria perchè il nostro divertimento da ragazzina era di aspettare la domenica, perchè arrivava su il postino di Sperticano Angelo Bertuzzi. Lui veniva su con una squadra e facevano il “tirabocce”. Prendevano delle bocce, e ciascuno faceva un tiro, il primo che arrivava in cima a Caprara con la prima boccia aveva vinto la gara. Però lui veniva su con una borsa di caramelle, e noialtri eravamo tutti lassù, ragazzetti più o meno piccoli, ad aspettare che arrivasse. L’unico nostro divertimento era che arrivasse il Postino alla domenica, e mangiare le caramelle. Quando andavamo a messa non avevamo tempo per fare dei giochi, si andava e si tornava. Andavamo al mattino presto, perchè il postino prima di mezzogiorno non arrivava su con le bocce. Lo chiamavano “al tir a l’òst”. Facevano le squadre, poi usavono bocce normali che venivano lanciate, e chi le tirava più avanti, insomma chi arrivava prima a San Martino col tiro a bocce vinceva. Poi all’osteria i vecchietti ed i giovani si radunavano tutti lì, a Caprara. Il posto è ancora riconoscibile, ci sono ancora le pietre, e io le riconosco. L’hanno scoperto bene, lì è dove c’era l’osteria, e dove stavo io c’è rimasta la scala. Se tu vai su vedi che ci sono tre o quattro gradini, che lì è dove andavo su io. L’hanno scoperto bene bene.
Quando Mussolini passò sulla Direttissima il maestro ci portò tutti a vedere passare questo treno, che passò, ma non si fermò micca vè? Davano di bianco a tutte le case che guardavano verso la Direttissima come se fosse chissà che cosa questa zona, e noi ragazzini ci fecero fare i vestiti da Piccoli Italiani le bimbe, e da Balilla i bimbi. Io il vestito bello l’ho avuto allora, perchè erano dei più bei vestitini tutti a pieghe, blu con la camicettina bianca. Sembravamo delle bambole. Era tutto organizzato da questo maestro. Poi questo maestro è morto. Lui era uno a cui piaceva andare in apparecchio. Venne giù l’apparecchio e morì il nostro maestro. Era prima che io finissi la quinta, perchè dopo venne un’altra maestra della quale non ricordo il nome. A Pasqua ci divertivamo ad andare sul prato con tutti gli amichetti. La chamavamo la Montagnola, ma adesso è piena di rovi. Era un prato che andava un pò in discesa, e con le uova sode che i nostri genitori ci davano facevamo un gioco. Si facevano ruzzolare le uova sode giù per il prato e quella che si rompeva perdeva la partita. Facevamo quei giochi lì. Del resto si andava alla dottrina a San Martino, e a messa alla domenica mattina. La nostra parrocchia era San Martino, anche se la chiesa di Casaglia sarebbe stata più vicina. E anche lì era una lotta, perchè non avevamo le scarpe. Ah, ma la miseria che ho provato io ragazzi. Sai chi stava benino un pò, chi faceva il contadino, perchè il mangiare se lo tirava sù nei campi, ma noialtri pigionanti fin che non sono andati a lavorare facevamo la fame. Invece dopo avere fatto la tessera mio babbo era anche riuscito a mettere assieme un pò di soldi e siamo poi andati a stare via da Caprara. Siamo andati ad abitare alla Villa d’Ignano, perchè aveva fatto un pò di gruzzolo. Perchè ci volevano dei soldi per andare dentro a un podere, anche come mezzadro, così andammo a contadino dal prete della Villa d’Ignano. Io a Caprara ho fatto le cinque classi. Fino a dieci anni. Poi siamo stati cinque anni alla Villa, e quando c’è stata la guerra avevo quindici anni.
A Ignano c’erano i Garibaldini, invece di quà a Caprara c’era la Stella Rossa. Noi quindi eravamo nella zona della Garibaldini. Non ricordo il nome del nostro prete, ma ricordo che era un ubriacone. Lui comunque stava dalla parte dei partigiani: aveva messo un ricevitore sul campanile, ma era sempre ubriaco come un coso. Un giorno di fine Settembre del 1944, nel pomeriggio, abbiamo visto dei carri armati che andavano su da Monzuno, perchè dalla Villa si vede tutto benissimo, e ci chedevamo che cosa andassero a fare su di lì, perchè a Monzuno c’erano già gli americani. Bo? Cosa vanno poi a fare su di lì ? Ci accorgemmo poi il mattino seguente: delle cannonate dio buono che pareva il finimondo. Noi scappammo tutti sotto al campanile, perchè dicevano che il campanile era sicuro. C’eravamo noi, poi venne giù il prete e la sua bisbetica. Il prete venne giù in mutande che aveva una gran paura, poi lui aveva preso dentro anche un signore di Bologna che era un fascista. Quest’uomo aveva la moglie e due figlie. Il prete, essendo in mutande, disse con mio padre: “eh, Arrigo, vammi bene a prendere qualcosa da coprirmi, vuoi che rimanga lì così ?” Intanto che mio padre passava per andare nella Sagrestia una cannonata colpì la chiesa e lui rimase sotto a uno di quei piloni lì. Sai che i campanili hanno quei sassoni grossi che servono da pilastri, e ne cadde giù uno. Rimase là così guarda. Me lo ricordo come se fosse adesso. Aveva tutto il soffitto della cucina del prete sopra alle spalle, e nella pancia aveva quel sassone lì. Ovviamnete faceva dei gran urli e chiedeva aiuto. Però mentre si toglieva una pietra ne venivano giù due, e se ne levavi due ne venivano giù venti. Insomma siamo riusciti a scoprirlo, ma quando l’abbiamo scoperto credendo che fosse già libero aveva questo sassone di quattro quintali lì così. Come facciamo come non facciamo, allora lui disse: vai in cantina nella rimessa che c’è un palanchino, e forse con quello potete sollevarlo. Però attraversare la piazza era pericoloso perchè erano tutte mitragliatrici e cannonate, eppure io presi sù e riuscii a passare. Infine siamo riusciti a tirarlo fuori, ma aveva le gambe gonfie così. Fu poi lì che la mamma disse: adesso lo carichiamo sopra al biroccio e poi andiamo a Caprara.
Così ci trasferimmo a Caprara, perché pensavamo che fosse più sicura della Villa, perché lì ci furono dei rastrellamenti e noi ci prendemmo paura. Quando venimmo via noi sono poi venuti via quasi tutti da là, ed è andata a finire che sono morti quasi tutti. Appena ci fummo trasferiti a Caprara io pensai di ritornare alla Villa per prendere in qua le bestie, perchè sai, eravamo scappati così “alla boia”, allora dissi a mia mamma che ci sarei andata con altre mie amiche: “vado a prendere su le bestie” Mi raccontarono poi che la mattina dopo, che io ero via per riprendere le bestie, si vedevano le case giù in basso che bruciavano tutte. Allora la Mamma disse a mio padre: “prova bene se puoi muoverti di andare via, perchè gli uomini li prendono e li portano in Germania. A noi donne e ragazze non fanno niente” me lo raccontava Papà, perchè io non c’ero. E fu così che Papà si avviò per la strada che va a Tura. Quando fui per la strada la mattina dopo venivo in quà con le bestie ed incontrai Papà, che essendo ferito girava con due bastoni. Ci incontrammo che ero con altre due o tre amiche, una delle quali era parente di quelle Ciacarelle, quelle che le chiamano Ciacarela, e ci disse: “tornate indietro per l’amor di Dio, perchè là bruciano, non so se ammazzano, ma di sicuro bruciano tutte le case” Tornammo indietro ed arrivammo a Tura, dove c’erano i partigiani che ci dissero di passare la notte lì, perché sarebbe stato pericoloso anche andare giù alla Villa. Erano i partigiani della Garibaldina che avevano la sede lì a Tura. Al mattino dopo sentimmo degli urli: “Sono Paola, Salvina, dove seii. Dov’è la Salvina” Erano due delle mie sorelle che si sono salvate, però una era rimasta cieca, e l’altra aveva un buco così nel sedere. Tutta la notte avevano girato, da Caprara sono venute fino là a piedi, che è vicino alla Villa, Quella che non ci vedeva, che aveva la forza di camminare ha preso in spalla l’altra e facevano un pezzo di strada per volta così sono riuscite ad arrivare fino là. Ma tu pensi che noi le potessimo riconoscere chi erano? “Sono Paola, sono Maria, sono Paola sono Maria” Erano piene di sangue e di brandelli di carne che è una cosa indescrivibile. Dopo le abbiamo riconosciute, e siamo ritornate giù a casa nostra alla Villa. Che poi i tedeschi vennero anche là, ma non dicemmo nulla. Papà era ferito, come anche le altre due sorelle, ma non dicemmo come erano rimaste ferite, dicemmo che era arrivata una cannonata. Ci dissero poi che avremmo potuto accompagnarle giù all’Allocco che loro da lì le avrebbero portate a Bologna. Era un giovane militare che poi ripartì in macchina. Nel frattempo c’era un dottore che aveva ancora una fiala di antibiotico o pennicellina, e la fece a mia sorella che aveva questo buco. Ci disse che se si fosse salvata dall’infezione con quell’iniezione non ci sarebbe stato bisogno di andare via. Dopo la puntura iniziò a stare meglio, e noi la curavamo con dei lenzuoli bagnati nel sale, fino a quando anche il sale finì. Così rimanemmo lì a lungo. Erano sfollati tutti, perchè i tedeschi non volevano nessuno, ma noi dal prete ci trovavamo tanto bene, giù sotto, che c’era una rimessa, ed eravamo in una decina. Della nostra famiglia eravamo rimaste noi tre sorelle e mio padre. Gli altri erano tutti morti.Quell’anno lì era un anno abbastanza abbondante di tutto, e gli uomini ammazzarono anche un maiale. Per macinare il grano andammo a cercare tutti i macinini che avevamo nelle case e macinavamo il grano per fare il pane. Però per fare il pane dovevamo accendere il forno. Noi non volevamo andare a Bologna, perchè poi dicevamo: “gli alleati sono lì, sono a Monzuno, verranno pure di quà una qualche volta questi Americani. Niente, i Tedeschi ci hanno scoperti, perchè se volevamo mangiare alla mattina accendavamo il forno, così sono venuti su e ci hanno portati via e siamo andati a piedi fino a Bologna. Ci misero tutti in fila uno dietro l’altro. Su da Tignano, giù da San Silvestro, la Lama, poi giù fino a Bologna. Ci hanno poi depositati nella caserma Giordani. Sarà stato Dicembre. Io fui anche abbastanza fortunata perchè andai in casa da quel signore che era lì dal prete. Lui infatti, quando vide che c’era della brutta mossa andò a Bologna, però ci lasciò detto: “se avete bisogno di venire giù questo è il mio indirizzo, venitemi a trovare. Se per caso mai io mi troverò male a Bologna, so che qui sono stato bene e torno qui” Toccò a noi andare laggiù, sai ? Sarà stato un fascista, però per me è stato un uomo umano. Quando andammo a Bologna lo andammo a cercare, però lui il posto per tutti non lo aveva, perchè noi eravamo in quattro, ma un posto lo aveva, e decise di tenere me. Gli altri andarono alla caserma. Tutte le sere che Dio mandava in terra lui mi portava ogni bene di Dio, per me e per i miei. Ci vestì tutti, ma vestiti eh? Che eravamo degli straccioni. A me mi teneva come una regina. Il cappello, le scarpe, che io avevo sempre avuto lo zoccolo col legno sotto. Poi venne la liberazione, e sebbene io stessi bene lì a casa di questi signori sono voluta ritornare a casa dai miei. Così feci di nuovo la strada da Bologna a Villa a piedi. Ecco, questa è la mia vita. Dico sempre voglio scriverla perchè è stata un disastro. Un disastro.
Dopo poi l’hanno ucciso sai? Nei tre giorni bianchi i fascisti li ammazzavano tutti, ed uccisero anche il Pretore. Tempo dopo andai a trovare la moglie, che dal gran dispiacere fu ricoverata dentro l’ospedale dei matti. Dopo tanti anni andai dentro a un supermercato e mi sentii chiamare: “Salvina, Salvina” “Ma chi è che mi chiama, qui dentro” Era una figlia di questi signori che aveva un nome russo, non ricordo quale adesso. Mia sorella che era rimasta cieca ha poi recuperato, però sono morte tutte due dopo con l’alzimer, e per me è stato quello che hanno passato lassù. Perchè si sono salvate sotto ai morti. Fino a quando sentivano dei bimbi che piangevano buttavano dentro delle bombe a mano. Poi mia sorella diceva sempre che c’era uno monco, e lei lo riconobbe che c’era Reder. Ne ha avuto abbastanza. Ricordo che quando facevano vedere Marzabotto per televisione apriva degli occhi così.
Dopo la guerra abbiamo continuato a vivere alla Villa fino a quando venni in Tignano e mi sposai. Mio babbo è sempre stato là. Da Ignano sono venuta a Pian di venola, che è nata la prima figlia, dopo due giorni che ero in Pian di Venola, sicchè la Lucia è nata il 16 di Novembre del 46.
Mio marito era stato rastrellato e mandato in Germania. Quando tornò a casa trovò tutta la famiglia distrutta, c’era rimasto solo suo padre. Lui poverino aveva trovato una donna là che gli dava da mangiare di nascosto e quando venne a casa la prese con se. Quando arrivò in fondo all’Allocco chiese alla gente dov’era la sua famiglia, e nessuno gli rispondeva, perchè sapevano che non esisteva più. Arrivò poi suo padre Iubini, che lo riconobbe: “quello là è Augusto” Gli chiese degli altri e seppe che li avevano ammazzati tutti. La donna tedesca l’aveva lasciata giù, non so dove, e quando seppe che i tedeschi gli avevano ammazzato tutta la famiglia tornò indietro di corsa e la mandò via: “torna a casa tua, qui non ti voglio” Dopo poi ci fidanzammo. Io lo conoscevo da prima, ma non eravamo fidanzati. Quando ci sposammo prendemmo in casa anche suo babbo. Noi eravamo l’unica famiglia in cui eravamo rimasti in quattro, io papà ed altre due sorelle, poi prendemmo anche suo padre, Iubini. Dopo sono stati a lungo con noi, perchè loro abitavano alla Volta, che è sopra a Canovella. Loro avevano il podere proprio in cima alla montagna. Così ci accompagnammo, senza sposarci. Mi sono poi sposata dopo che venni ad abitare qui a Pian di Venola. Mi sono sposata in comune e basta. Da lì venimmo poi nel podere di Calzolari che veniva detto Ciaccarella, alla Mattoniera, dove adesso abita mia figlia. Stavamo abbastanza benino, davamo via il latte. Anche questo Calzolari è morto con la guerra, e non si è saputo dove sia andato a finire, sia lui sia suo figlio. Ma lui era uno che comandava su per di là. Era un fascista. Lui faceva il fattore di San Martino, e c’era qualcuno che non gli andava bene. Forse lui lì era uno di quelli convinti, però non ne sono sicura. Voi ragazzi che siete giovani, fate tutto il possibile perchè la guerra non torni più. Per l’amor di Dio.
Abbiam passato quello che abbiamo passato, poi dopo la guerra non avevamo più nulla da mangiare. Io a 19 anni rimasi vedova con tre bimbi, e quando morì mio marito mi fecero la colletta, e con quei soldi lì pagai il funerale. Quando morì lui aveva appena finito di fare una settimana sopra a Malfolle con un muratore, e mi diedero poi quei soldi lì, ma era tutto quello che avevo. Il Comune, adesso vi dico la verità: io non gli ho mai chiesto niente, ma non mi ha micca mai aiutato sapete ? Andavo a fare le strade con la Tot, e mi misero giù anche le marchette della pensione. L’unica cosa mi diedero fu la casa popolare, perchè avevo lo sfratto, e basta. Era miseria dappertutto. Mi avevano dato da fare da mangiare ai bimbi della scuola a Pian di Venola. Io facevo da mangiare a casa mia, ed a quel tempo abitavo qui su alla Palazzina. Mi davano la legna per cucinare, e con quella intanto mi scaldavo. Tutto l’anno mi scaldavo con quella legna lì, poi avevo il libretto, ma di quello non ne ho mai usufruito, perchè ne avevo abbastanza, perché mi rimaneva sempre qualcosa da ciò che cuocevo per i bimbi. Per mangiare e scaldarmi me la cavavo così, però l’affitto se lo volevo pagare tutti gli anni dovevo andare dietro la macchina da battere. Un mese sotto al trebbiatore a portare via l’allocco. Il comune mi aiutò così, dandomi il lavoro per cucinare ai bimbi della scuola. Ma forse non avevano molte risorse per aiutare, e me la sono cavata per 5 o sei anni. Io ogni tanto andavo giù per vedere se mi potevano aiutare, ma non mi trovavano mai niente, per me non c’era lavoro da nessuna parte. Io sapevo che alla Lama qualche volta prendevano dentro qualche donna, ma io non sono mai riuscita. Ma quelli a cui mi rivolgevo erano fascisti perchè in comune comandavano ancora loro. Un mattino uno di questi mi prese da una parte e mi disse: “ascoltami mò Salvina, sono stanco di vederti sempre venire qui a piangere, adesso provo io” Bè, mi fece andare dentro da Giordani, e io lui lì lo ringrazierò sempre, anche se era un fascista. Cosa ti debbo dire adesso: io li ho a noia, perchè ... per l’amor di Dio, però se io ho avuto un aiuto, con tanti compagni … Era quello dell’Anagrafe: Casalini. Lui abitava a Sperticano. E’ stato lui a darmi da lavorare. Da allora in avanti ho potuto respirare un pò. Le mie due figlie dovetti metterle in collegio, il figlio maschio invece lo tenni a casa. Le misero poi in collegio quando io mi ammalai, e rimasi 40 giorni con la febbre a 40, che il dottore Dedonno mi portò al Sant’Orsola, lui poi era stato un grande amico di mio marito. Facevano a gara perchè tutti due avevano tre femmine, e facevano la gara a chi avrebbe fatto un maschio per primo.
Ma mio marito era già morto a quel tempo. Mi portò al sant’Orsola ma non c’era posto, e mi misero in corsia. Allora il dottore si sedette accanto a me, e quando una suorina di passaggio gli chiese: “che cosa fa lei qui”, lui rispose: “io sono il suo dottore, e fin che questa signora non la metterete a letto io non vado via” Al chè la suorina disse: “non ce ne sono micca tanti che fanno questo per i loro pazienti” Mi fecero una puntura in una spalla e guarii subito. Ma in quel periodo lì io avevo a casa tre figli: uno di 2 anni uno di 3, e uno di due mesi. Ed era molto difficile in quelle condizioni lì seguirli come si deve, allora quelle due lì le misero in collegio, e il piccolo lo tenne mio suocero Iubini. Ah io ho fatto una vita che non l’auguro a nessuno. Adesso sto bene, ma quest’anno non ho più la salute. Adesso ti dirò che dei nipotini ne ho già 5. |
Caprara di Sotto, foto di Luigi Fantini del 16 Luglio 1939. Pubblicata nel libro "Antichi Edifici della Montagna Bolognese. |
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Ida, Gabriella e Salvina. Dettaglio della foto di Fantini a Caprara di Sopra. |
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Matilde Iubini, con i figli e la Nonna. Il figlio più grande sposerà poi Salvina. |
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Salvina col marito Augusto Iubini e la figlia Lucia. Salvina è visibilmente in stato interessante in attesa di Maria. |
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Salvina Astrali, durante la permanenza a Bologna dopo il massacro. |
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Nonno Iubini a sinistra, ed a destra suo fratello. |
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Nonno Iubini Primo a Pian di Venola (località Mattoniera) |
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Estratto dal libro “Il Massacro” di Baldissara e Pezzino edito Il Mulino – Maggio 2009
Caprara
Nella cartina disegnata da Walter Reder l'obiettivo finale della compagnia comandata da Saalfrank era Caprara, antico borgo fortificato e capoluogo del comune prima che la sede amministrativa fosse trasferita a Marzabotto. Saalfrank tuttavia affermò che il 29 non era riuscito ad arrivare a Caprara: sarebbe rimasto fermo per tre ore al rifugio (Villa Serana) dove aveva trovato, e lasciati senza violenze, sessanta civili, e quindi sarebbe tornato alla sua base di partenza nella valle del Setta, come tutte le compagnie dell'AA 16. Durante la notte, il fuoco d'artiglieria notturno avrebbe spianato la strada alle truppe, che il giorno dopo – essendosi lui rifiutato di attaccare di notte, come Reder gli aveva richiesto su iniziativa di Loos – non trovarono più resistenza: raggiunse Monte Caprara verso mezzogiorno, e vi incontrò Segebrecht, il comandante dalla 1a compagnia, che gli disse di aver sofferto gravi perdite e che probabilmente aveva ucciso in azione il comandante della Stella rossa. Ebbe quattro o cinque feriti tra i suoi uomini, compresi quelli del plotone aggregato alla compagnia di Segebrecht. Secondo Reder, il 30 settembre Saalfrank ebbe su Monte Caprara un incontro con gli altri comandanti e, ritenendo raggiunti tutti gli obiettivi, avrebbe ordinato il rientro, avvenuto nel pomeriggio. Al dibattimento contro Simon, Saalfrank ripeté che:
La mattina seguente noi riprendemmo la nostra azione e partimmo per la marcia fra le 6 e le 7. In quel giorno non ho incontrato resistenza da parte dei partigiani, che si erano ritirati durante la notte. Ho visto 4 o 5 civili, banditi regolari che erano stati uccisi da colpi di fucile. Non ho visto altri civili (non partigiani). Ho raggiunto Monte Caprare [sic!], ho segnalato che avevo raggiunto il mio obiettivo e sono ritornato per la via più breve [..] Sono stato in Caprare [sic!] e ho visto le fortificazioni. Le loro cantine erano state trasformate in cantine fortificate. Non avrebbero potuto essere solo rifugi antiaerei […] Quattro case in Caprare [sic!] erano state fortificate. Le cantine erano state rafforzate e c'erano delle trincee […] Erano simili alle fortificazioni russe. Nelle case in Capraie [sic!] ho trovato munizioni americane e tedesche e mitragliatrici. Credo che al briefing ci fu detto di missioni militari alleate presso i partigiani e noi credevamo che la divisione Stella Rossa fosse un gruppo di banditi russi.
Quindi a Caprara vi sarebbe stato un vero e proprio sistema di case fortificate – ciò che già era stato sostenuto al processo a carico di Kesselring, lo vedremo nel capitolo VIII – utilizzate dai partigiani, dove tuttavia non sarebbero avvenuti scontri, perché quando Saalfrank vi arrivò il 30 (lui e altri comandanti di compagnia) la resistenza era già stata debellata dall'artiglieria durante la notte.
Noi sappiamo tuttavia che qualche tedesco arrivò a Caprara già nella giornata del 29, nel primo pomeriggio. Maria Collina abitava con la famiglia nella frazione di Villa d'Ignano del comune di Marzabotto, sul versante del Setta, nel podere Scaletto, gestito dal marito e dal cognato; a causa di un rastrellamento in un casolare vicino e di voci allarmanti sull'atteggiamento tedesco verso i civili, il 28 settembre avevano abbandonato il podere e attraverso i boschi si erano diretti a Caprara, trovando ospitalità presso una famiglia amica. La mattina del 29, avendo sentito nei dintorni «molti colpi di cannone e di mitraglia», gli abitanti della zona raggiunsero un rifugio vicino. Dopo poche ore, arrivarono sette o otto soldati, che rastrellarono le persone nel rifugio, le misero in fila, le rinchiusero in una delle case di Caprara, gettando quindi delle bombe da una finestra e dalla porta: erano «settanta persone tra donne e bambini ad eccezione di due o tre vecchi», e sopravvissero solo in otto. Maria Collina perse tre figli di quattro, sette e nove anni, mentre un altro suo bambino di nove mesi rimase ferito dalla schegge e morì al Sant'Orsola di Bologna nel gennaio successivo. Lei, pur ferita alla gamba sinistra, riuscì a salvarsi.
Anche Gilberto Fabbri era nel rifugio di Caprara: sfollato da Vado, la mattina del 29 era a Serana, ma avendo sentito colpi di fucile e di mortaio, decise di recarsi a Caprara e, come molti in quei giorni, fu vittima del caso, perché, come abbiamo visto, ai civili trovati a Serana non fu fatto niente. Verso le 14.30-15, tre soldati tedeschi entrarono nel rifugio, li fecero uscire e li rinchiusero nella cucina della casa
chiamata Caprara. Essi chiusero tutte le porte ed aprirono soltanto la finestra della cucina ed immediatamente dopo gettarono nella cucina 4 bombe a mano tedesche [«avevano un manico di legno sulla cima del quale c'era una specie di scatola di latta»] ed una grande di colore rosso. Ci fu una forte esplosione e molto fumo.
Nonostante fosse rimasto ferito alle gambe, Gilberto Fabbri riuscì a saltare fuori dalla finestra e a rifugiarsi in un cespuglio vicino, da dove vide i tedeschi andare alla porta della casa, e poco dopo «due donne scappare attraverso un campo vicino»; furono raggiunte da colpi di fucile e caddero a terra. «Dopo che ero sotto il cespuglio da tre quarti d'ora, sentii parecchi colpi seguiti da grida di donne: dopo ci fu silenzio». Solo la mattina successiva abbandonò il suo nascondiglio, con una marcia di parecchi chilometri girò attorno a Monte Sole e arrivò in serata a San Mamante, dove fu accolto da un contadino. Per le ferite riportate, dovette passare cinque mesi negli ospedali di Bologna e rimase inabile al lavoro.
Anche Nerina Moschetti, di soli nove anni, riuscì a salvarsi, saltando fuori da una finestra e nascondendosi in un tombino. E così Maria Astrali, di tredici anni (nell'eccidio morirono sua madre e tre sorelle, di ventidue, venti e undici anni), si salvò, insieme a un'altra sorella, Paola, perché fu ricoperta dai cadaveri: secondo la sua testimonianza del 2002, uno degli uomini con la divisa tedesca «parlava correttamente italiano». Nerina ha anche dichiarato di ricordare «distintamente la presenza del Reder per tutto l'episodio», riconoscendolo per il braccio monco e «anche perché l'ho rivisto poi alla televisione», ma si tratta di una deformazione della memoria, dovuta evidentemente al gran parlare che si fece di Reder negli anni successivi, perché è pressoché certo che il comandante dell'AA 16 quel giorno non fosse a Caprara.
Ecco come Salvina Astrali, che era scesa a Villa d'Ignano a recuperare le bestie e stava ritornando a Caprara dove erano sfollati, ha raccontato le modalità del massacro, riferitele dalla sorella Maria:
Bombe a mano e la mitragliatrice sulla finestra [ ... ] e finché sentivano delle urla buttavano dentro bombe a mano e smitragliavano, finché ci sono stati dei bimbi che piangevano buttavano dentro le bombe a mano, finché c'erano dei bimbi vivi che loro piangevano buttavano dentro bombe a mano, finiti di morire i bimbi piccoli hanno smesso di mettere bombe. Loro sono rimaste ferme fino alla sera sotto i morti.
Al dibattimento Maria Astrali non si presenterà a deporre. La sorella, Salvina, ha spiegato: «non può venire perché è malatissima, è dentro un ricovero, ma appena che le parlano di Marzabotto... lei è rimasta scossa e quelle due sorelle che sono rimaste sotto che si sono salvate tutte e due si sono ammalate dopo, non hanno mai avuto niente da nessuno». Così Salvina racconterà il suo incontro con Maria e l'altra sorella superstite, Paola, il giorno 30 settembre:
Quando siamo stati lungo la strada [da Villa d'Ignano a Caprara, il 29 settembre] ho incontrato mio papà che dice: «tornate indietro che là ammazzano, rastrellano tutto danno fuoco a tutto». Siamo tornati indietro, ci siamo fermati che c'era un podere di un contadino, c'era il ricovero dei partigiani lì che ci hanno fatto fermare, hanno detto: «State lì stanotte perché andare giù c'era il rastrellamento». Ci siamo fermati lì. Dopo il mattino, appena è venuta l'alba abbiamo sentito chiamare: «Salvina, Maria, papà, dove siete?». Erano due mie sorelle che si sono salvate dentro la fossa di Caprara. Nessuno le conosceva dal gran terrore che erano messe, una aveva le cervellina della testa di mia sorellina più piccola. Lì abbiamo finiti tutto lì, hanno detto che avevano ucciso tutti «noi ci siamo salvate, perché ci siamo buttate sotto i morti, ci siamo salvate sotto i morti»; una di queste due sorelle è ancora al mondo, ma poverina ha avuto anche lei una scossa, che non sono mai più state cristiane, perché una aveva preso due schegge di bombe a mano nel sedere ed aveva due buchi così; l'altra era rimasta cieca, tutta la notte l'hanno vissuta in mezzo al bosco; poi al mattino quella che vedeva portava l'altra in spalla. Sono arrivate lì dove eravamo noi in quelle condizioni lì. Io dico quello che mi hanno detto loro, perché io sono stata fortunata, diciamo così, non sono rimasta lì la sera, sono tornata indietro per andare a prendere questo bestiame credendo di portarlo al sicuro, e mia mamma ha detto a mio padre: «Scappa te che gli uomini li prendono tutti ed a noi donne non ci fanno niente», invece li hanno ammazzati tutti.
Non c'erano partigiani a Caprara. Maria Collina racconta che ai tedeschi arrivati al rifugio fecero rilevare che erano tutte donne con i figli e che non c'erano uomini, «ma essi non vollero sentire ragioni né ebbero alcuna pietà di fronte alle grida disperate di noi madri e di tanti piccoli innocenti». Lei personalmente cercò di parlare con un militare che la ricacciò brutalmente dicendo «non c'è bimbi, non c'è níente». Gilberto Fabbri confermò che «i tedeschi non interrogarono nessuna delle persone ch'erano nel ricovero».
I partigiani avevano in realtà le loro sedi fra Caprara di Sopra, Caprara di Sotto, Casetta e Poggio di Casaglia, dove erano schierate le quattro compagnie del 30 battaglione della Stella rossa (la sede del comando era a Caprara di Sotto), ma alle prime luci del giorno, accortisi del rastrellamento in atto, si erano ritirati sui monti soprastanti, Monte Caprara e Monte Sole. Secondo Carlo Castelli, vicecomandante del battaglione,
la popolazione di Caprara era stata invitata da noi, prima che vi giungessero i tedeschi a portarsi con noi sulle posizioni di Monte Sole; ma pochi accettarono cioè pochi rimasero sulle nostre posizioni perché altri dopo esserci venuti vollero tornare all'abitato, prima che arrivassero i tedeschi, forse preoccupati della sorte del bestiame. Così avvenne che quelli che rimasero con noi furono salvi mentre furono trucidati tutti gli altri.
Guerrino Avoni, che comandava la 3a compagnia del Y battaglione, dalla sua postazione su Monte Sole, a circa duecento metri da Casaglia, con un binocolo poté vedere una fila di donne (ne contò sedici), una con un bambino in braccio, portate verso Caprara, legate con una corda, e i tedeschi gettare bombe a mano fra di loro. In tre tentarono la fuga: una di esse fu uccisa con un colpo di pistola, le altre due scomparvero dalla sua vista. Il già citato Castelli
durante l'eccidio di Caprara vide] inseguire una donna che, fuori dell'abitato cercava di scappare in direzione della Valle del Setta; il tedesco di cui non posso precisare il grado, la raggiunse, l'afferrò per i capelli e le sparò con la pistola in faccia uccidendola.
Primo Lanzarini aveva a Caprara la famiglia: la mattina del 29 era nascosto sul Monte Caprara, nel versante verso Pian di Venola, e quindi non poté vedere alcunché. La sera si recò a Caprara, e fra i cadaveri notò una bambina di due anni e mezzo ancora viva, che prese con sé. Fra i corpi della casa vi erano quelli della madre Cleonice Rosa, alla quale sarebbe stata attribuita la qualifica di «partigiana» (lo stesso Primo dichiarò alla Commissione crimini di guerra della 5a armata di avere aiutato i partigiani), della zia Alda e di tre altre sue sorelle (Anna e Rosanna, due gemelle di sei anni, e Vittorina di dodici). Solo dopo nove giorni Primo ritrovò la sorellina Lucia, di nove mesi, vicino alla casa, morta probabilmente di inedia.
Armando Moschetti, che con il fratello Alfonso era colono a San Martino di Caprara, la mattina del 29, quando vide bruciare casolari e fienili «nella zona circostante per un perimetro di oltre due chilometri», si nascose nel bosco portando con sé le bestie, e vi passò tutta la giornata, in una buca coperta da una pietra. La sera, quando uscì dal nascondiglio, passò da Caprara, dove in un casolare vi erano circa sessanta corpi che ancora bruciavano.
Davanti alla porta vidi due bimbi — l'uno di due anni e l'altro di quattro anni — che piangevano. Corsi verso di loro e piansi anch'io. Volevo tirarli fuori ma proprio allora furono tirati dei colpi di mitragliatrice e fui costretto a buttarmi a terra. Così non potei salvare i due bimbi che erano entrambi feriti.
Tornò a rifugiarsi nel bosco, dove sarebbe rimasto per tre giorni; il 30 settembre, a San Martino, i tedeschi avrebbero ucciso, fra gli altri, i genitori, un fratello, la moglie, i tre suoi figli di sei mesi, nove e dodici anni, una cognata, tre nipoti. Ernestina Castagnari, moglie di un altro fratello, Alfonso, anche lui riuscito a scappare, era fuggita a casa dei suoceri a Caprara di Sotto: quando Alfonso, che era rimasto nascosto nei boschi per otto giorni, si recò alla casa, la trovò bruciata, senza nessuno della sua famiglia. Dai dati ufficiali la moglie risulta deceduta il 29 a San Giovanni di Sotto, evidentemente rastrellata sulla strada da una delle tante pattuglie tedesche che battevano quei luoghi.
Guido Tordi, partigiano, comandante la 1a compagnia del 4° battaglione, la sera del 29 abbandonò le posizioni su Monte Sole, dove si era rifugiato durante l'attacco tedesco, e con un nutrito gruppo di partigiani si ritirò verso Caprara:
Nella prima casa che bruciava e crollava sotto le fiamme entrai perché di là veniva una voce di bambina che chiamava "mamma" ed invocava aiuto. Dentro vidi una quindicina di cadaveri di civili, in maggioranza donne e bambini, legati e massacrati, sui quali avevano infierito con raffiche e bombe a mano. Dovevo muovermi nel sangue e mi era impossibile non calpestare resti umani sparpagliati ovunque. In quel momento il soffitto mi crollò addosso ed una bimba di 8-9 anni piombò a terra, sul mucchio di cadaveri: per sua fortuna era viva e non ferita, solo in preda a terrore folle. A destra della porta, da una credenza chiusa da cui venivano dei lamenti, estrassi una bambina di due anni circa, ancora viva ma con una guancia maciullata ed un fianco squarciato: dal ventre perdeva le interiora. Un medico della brigata le prestò le cure possibili.
Roberto Carboni la mattina del 29, ai primi rumori di spari, abbandonò Caprara, insieme agli altri uomini:
Nei precedenti rastrellamenti, i nazifascisti avevano sempre catturato solo gli uomini per deportarli o fucilarli, avevano anche bruciato case ma rispettato le donne e i bambini. Perciò quella mattina, quando ci rendem- mo conto della presenza dei nazifascisti, noi uomini validi decidemmo di nasconderci, ma per la sorte delle donne e dei bambini, pensammo di non doverci preoccupare.
[ ... ] Quando finalmente tornai, mi si presentò la casa bruciata e in parte crollata. Davanti a casa non c'era nessuno, ma come entrai in cucina dopo essermi fatto strada fra le macerie, la trovai piena di cadaveri accatastati. Erano 44, tutte donne e bambini. Parte h conoscevo perché erano miei vicini, altri erano gente di Villa Ignavo, Sperticano e altri luoghi. Li avevano tutti ammucchiati in cucina, poi dalla porta aperta che dava sulla strada, li avevano massacrati con la mitraglia e le bombe a mano. Impossibile scappare, perché di fuori stavano in agguato e chi provò fu ributtato dentro a colpi di fucile, come si capiva da alcuni cadaveri che facevano mucchio proprio sotto la finestra. A vedere quella quantità di morti, si pensava che doveva essere stata una cosa tremenda. Per lo più erano uno sopra l'altro contro la parete di fronte all'uscita, segno che spingevano da quel lato nell'ultima disperata illusione di trovare scampo, di fuggire davanti alla canna della mitraglia che sparava dal vano della porta. Poi i nazisti avevano minato la casa, che in parte era crollata sui cadaveri. C'erano bambini e donne consumati dal fuoco: quando li raccogliemmo per seppellirli, le carni bruciate si sfacevano. Riuscimmo a seppellirli tutti in una grande buca.
Chi si rese responsabile dell'eccidio di Caprara? Secondo Zanini, due squadre di tedeschi, una del 105° reggimento Flak, che saliva dalla valle del Reno, lungo il sentiero Campedello- Castellino (dove avrebbero ucciso i componenti della famiglia Tondi), per ricongiungersi a Caprara con i soldati saliti dalla valle del Setta: come sempre Dario Zanini non riferisce la fonte delle sue affermazioni, e nessun'altra testimonianza conferma la presenza degli uomini del 105° reggimento Flak. Maria Collina, che sopravvisse alla strage, fu molto decisa nel sostenere che il gruppo di sette-otto soldati che rastrellarono il rifugio, portarono le donne e bambini nella casa di Caprara e li massacrarono, erano giovanissimi SS, che lei riconobbe dal caratteristico fregio sul colletto. Gilberto Fabbri, altro sopravvissuto, prima sostenne in ben due testimonianze di non poter dire niente in proposito, perché i soldati che operarono a Caprara, solo tre a suo dire, erano coperti con teli mimetici e avevano l'elmetto camuffato con foglie; al dibattimento cambiò versione – senza che nessuno gli facesse rilevare la contraddizione con le sue deposizioni agli atti – e sostenne che i soldati avevano il distintivo delle SS. Nel 2002 confermerà che si trattava di militari delle SS.
Il partigiano Luciano Fortuzzi, del 4° battaglione, rifugiatosi sulle pendici di Monte Sole, affermò che circa cinquanta soldati arrivarono prima a Casaglia, verso le 7 di mattina, e poi scesero a Caprara, dove uccisero i civili e dettero fuoco alle abitazioni: si tratterebbe quindi di uomini della V compagnia di Reder. Otello Musolesi sostenne che i tedeschi che operarono nella zona fra Monte Sole e il Setta, che lui vide da lontano e in una giornata con scarsa visibilità, senza poter distinguere le mostrine o particolari fregi, indossavano un impermeabile nero e lucido; Carlo Castelli, che era con lui, sostenne invece che le truppe erano vestite «di un color coloniale, tela, cori pantaloni lunghi chiusi in fondo come quelli per sci, elmetto; molti portavano l'impermeabile che mi pare di tipo mimetico».
In questa contraddittoria girandola di affermazioni, nessuno ha sottolineato un'affermazione di Max Saalfrank al dibattimento contro Simon: dopo avere dichiarato che lui era entrato a Caprara solo il giorno 30, aggiunse:
Il mio primo plotone entrò a Caprare [sic!] e rastrellò il Quartier generale della Stella Rossa. Cadde quindi sotto un fuoco incrociato da destra e sinistra e abbandonò il luogo, ritirandosi. Più tardi fu sotto un intenso fuoco dall'area di San Martino e tutte le comunicazioni caddero. Io ero a circa 800 X [sica Probabilmente metri o yarde] verso Sud con otto uomini — vicino all'edificio dove avevo trovato 60 civili. Ho respinto forti gruppi di partigiani che mi attaccavano dalla ferrovia. Ho avuto quattro perdite.
È l'ammissione esplicita che il 29 settembre una pattuglia della 5a compagnia dell'AA 16 entrò a Caprara, del resto l'obiettivo esplicito della colonna comandata da Saalfrank, il che conferma quanto ebbe a dichiarare Otello Musolesi, comandante del 30 battaglione della Stella rossa, che cioè il 29 settembre i tedeschi avevano conquistato Monte Caprara. La dichiarazione di Saalfrank non si può riferire al giorno successivo quando, secondo quanto ammesso da lui stesso e da Reder, non vi fu alcuna resistenza da parte dei partigiani: l'asserito rastrellamento del quartier generale della Stella rossa altro non è che lo sterminio delle donne e dei bambini rinchiusi in un casolare di Caprara.
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Poi a Ingegneria ne arrivavano dentro sempre, di tutti i colori ne arrivavano, eh; uno lo bruciarono con il fornello. Poi capitò che c’era uno che faceva il mercato nero delle sigarette, che stava sopra alla Pieve del Pino, Tossani Guerrino, era della mia classe, non so neanche se è morto o è ancora al mondo.
Piroti
Testimonianza di LIDOVINO BONAFEDE “Piroti" raccolta il 27 gennaio 2009 a cura di Renato Sasdelli per gentile concessione del curatore e del sito ANPI di Pianoro.
Bonafede, come è successo che è stato arrestato?
Mi hanno arrestato a Bologna l’11 febbraio 1945 in Via Castagnoli al numero 1. Ero fermo dentro lì, perché eravamo sfollati da qui, da Pian di Macina, i tedeschi ci avevano mandato via perché ormai c’era già il fronte. Siamo andati dentro al magazzino della Farmacia Zarri, perché mio cognato Mario era a fare l’autista con Zarri e portava le medicine e le distillazioni da un posto all’altro.L’hanno arrestato in un rastrellamento e perché la cercavano?
No, no cercavano mio fratello Bonafede Franco, era nella 7a GAP ed è stato decorato con la medaglia d’argento, perché hanno avuto un combattimento in Via Ernesto Masi, in due. Uno è scappato invece lui è rimasto ferito, ha perso l’occhio e poi ha preso una schioppettata in una gamba. I repubblichini lo cercarono ma non l’hanno mai preso. In seguito mio fratello mi avvicinò e potei parlare con lui; mi raccontò che era ferito e disse a una signora: «Sono un partigiano. Se volete aiutarmi, aiutatemi».
Questa signora l’ha preso, l’ha coperto con una mantellina e l’ha portato fuori dal pericolo, fino alla base. Mai saputo come si chiamasse, quella ragazza.
Mancando la bicicletta, l’altro va via, sarà andato alla base però la bicicletta di Franco era rimasta lì. A parte che erano già fatti i nomi, a parte questo, io dovevo essere quello che avevo portato via la bicicletta perché era “timbrata” Borusa. Era il nome di un meccanico che faceva le biciclette, tra le quali ne avevo comprata una anch’io, e stava subito di là dal Pontevecchio.Dopo l’arresto l’hanno portata subito a Ingegneria?
I repubblichini sono arrivati che erano le due di notte e hanno sfondato le porte lì in Via Castagnoli, subito passato il Comunale. Mi hanno caricato su «l’abbiamo preso!» C’erano altre famiglie sfollate lì dentro (anche la moglie che ho sposato io erano sfollati lì dentro) però non ci conoscevamo. «L’abbiam preso, l’abbiam preso!» uno dice: «spara, spara!» e io dico «non ho nessuna arma». Mi hanno preso, mi hanno portato fuori, non mi hanno neanche lasciato vestire, niente, come ero messo. Mi hanno caricato su un camion con due nerbate sulla faccia, che facevo sangue al naso dappertutto. Mi hanno detto che mi portavano in Certosa, e poi via, siamo andati in altri due posti, non ricordo la via. Dicono «Lo portiamo alla Certosa». Io non so neanche girare Bologna; a Porta Zamboni c’ero stato, ero stato a Porta Castiglione, ma alle due della notte non sapevo mica dove andavo a finire. Prima di arrivare all’Ingegneria hanno caricato il sarto della federazione comunista, come si chiamava? Hanno arrestato anche lui. Ha scritto “Buonanotte babbo”, è su “Epopea partigiana” [è Francesco Leoni]. Quel ragazzo che lui parla che è stato castigato lì dentro a Ingegneria, e poi più visto, sono io.
Ho visto venire giù quel ragazzo che è stato messo nudo su un fornello; adesso non mi ricordo il suo nome [si tratta di Ramon Guidi, “Stracchino”].
Insomma, mi hanno portato subito là e poi hanno cominciato a picchiarmi perché dovevo fare i nomi. «Abbiamo preso il fratello», dicevano, «fa lo stesso; sarà l’esca per quello là». Mio fratello invece si era ossigenato i capelli ed era scomparso, però era diventata un’arma per me che ero là dentro.
Mio babbo era andato a Pianoro che c’era Tarozzi, era podestà prima della repubblica sociale, era andato da Tarozzi per cercare di farsi dare una lettera da portare a Nardini che era segretario del fascio, il reggente di Pianoro. Allora Nardini invece, visto come andavano le cose, aveva già tagliato la corda e si è salvato. Allora pensarono di andare a trovare una che abitava qui in confine con noi che la chiamavano “la matta”, “la mâta dla Cà dal Cócc”; si chiamava Mattei Marta. Si diceva fosse una ausiliaria col grado di Maggiore. La Ballerini e mio babbo andarono da questa signora e dopo due giorni arrivò questa signora, “la mâta”. Io ero là, messo male, eh, e poi fu proprio quel giorno che quel caporalmaggiore aveva preso Stracciari, ci conoscevamo perché ci siamo visto tante volte, però non aveva alzato la faccia. La signora fa: «Chi è che si chiama Bonafede?» «Sono io»; «cosa hai fatto?» «Mi accusano di robe che io non so niente. Noi siamo in dieci in famiglia, io ci ho il certificato di riforma militare e non ho bisogno di cercare altre cose». Dice: «Il colonnello Serrantini è al fronte, non so quando potrò incontrarlo o vederlo. Non ti posso garantire niente se posso fare qualcosa».
Invece dopo di allora proprio quella notte lì mi hanno messo la maschera cinque volte, la maschera antigas chiusa. Te caschi per terra e sei già finito. Uno, poveretto, se l’è fatta addosso. Io non me la sono fatta addosso perché non avevo niente indosso, ero nudo legato a un seggiolone, e tante botte sopra… ci siamo capiti, dove sentivo più male. Volevano dei nomi e poi che avessi confessato che la bicicletta l’avevo presa io, invece non era vero. Dissi che sapevo che Franco era via, l’avevo visto che l’avevano vestito da milite, era di leva, era ritornato a casa e poi non l’avevo più visto. Invece l’avevo visto, perché dopo siamo andati incontro a tante cose.
Poi a Ingegneria ne arrivavano dentro sempre, di tutti i colori ne arrivavano, eh; uno lo bruciarono con il fornello. Poi capitò che c’era uno che faceva il mercato nero delle sigarette, che stava sopra alla Pieve del Pino, Tossani Guerrino, era della mia classe, non so neanche se è morto o è ancora al mondo. Ci siamo trovati dopo due giorni, io gli dico: «a te non fanno mica niente, sei implicato in qualcosa?» «io no» «ma allora domani o domani l’altro te vai a casa». Ercolessi Graziano, in Via del Borgo fu arrestato, ed era uno che stava qui a Pian di Macina. Ci siamo incontrati dopo due giorni. «Beh, com’è che sei qui?» dice: «mi hanno detto: sei nato in un brutto posto e poi stai in un brutto posto». Gli dico: «te domani al massimo vai a casa». E infatti il giorno dopo va all’interrogatorio e mi fa: «oh, ciao Bonafede, vado a casa». Dopo tre giorni l’hanno trovato morto in cantina; e si vede, mi sa che quelli lì l’hanno cercato ancora per ammazzarlo, e buonanotte suonatori. Era Ercolessi Graziano.
Dopo di allora, per me interrogatori alla notte, alla mattina, a tutti gli orari. Un ufficiale, con un rapporto che studiava, mi fa: «io e te ci conosciamo» io dico: «non è vero niente. Se lei vuole confermare quello che dice, se ci conoscevamo ai punti che dice, uno dei due non c’era più. È tutta una bugia che si inventa». Insomma, io ho sempre avuto lo spirito di rispondere nel mio modo.
Di quelli che erano con me ricordo: Stracciari, che era di San Giovanni in Persiceto e dopo pochi giorni l’hanno mandato via; poi quello che hanno bruciato sul fornello; poi “Garibaldi” [si tratta di Oscar Padovani], che era proprio un bel soggetto; poi un altro che era nell’ANAS e non mi ricordo più come si chiamava. Ne ho poi trovati molti altri che non conoscevo.Oltre a Serrantini, si ricorda nomi dei fascisti che picchiavano?
Mi ricordo solo all’”investigativa”, quando mi hanno chiamato per l’ultima volta. Questa donna m’aveva detto: «non so se potrò fare qualcosa». Sono passati venti-venticinque giorni però non si vedeva nessuno. Un bel giorno, dopo pranzo, «Bonafede, fai il fagottino, prendi la tua roba». Dico: «addio, io vado via» perché cosa puoi andare a pensare? Avevo già saputo di quei due in Via Falegnami che li lasciarono andare poi, quando erano già un pezzo là davanti, gli diedero una bella segata a metà. In Via Falegnami, ricordo ancora quello lì. Insomma, mi hanno portato su e hanno cominciato a interrogarmi. C’era la “Vienna” che era stata una staffetta. Lei non interrogava, ma bastava un suo segno e te eri già steso, non racconto bugie. C’era Berti e c’era Monti che gli mancava un occhio o guardava che storceva l’occhio. Fai conto di vedere… peggio del dottore che abbiamo adesso; quando fissava io dicevo: «mah, guarda solo con un occhio». Ecco, quello lì fu l’ultimo interrogatorio. E questo qui, il più giovane, sarà stato il colonnello Serrantini?, insomma disse: «Lei potrà ringraziare soltanto una persona», e io dico: «appena lo conosco, o ho il piacere di conoscerlo, lo saluto». Poi disse: «può andare a casa, non si allontani», non ero mica a casa, ero in una cantina, «non si allontani da lì». Quando arrivo alla Porta Saragozza, trovo la “matta” e mi dice: «Bonafede, non andare a casa, và dove vuoi ma non andare a casa», perché erano là giorno e notte e non lasciavano più vivere non solo la nostra famiglia ma anche le altre sei-sette famiglie, non le lasciavano più stare. È così.Quindi lei è rimasto a Ingegneria da quando l’hanno arrestato l’11 di febbraio ’45 fino al 6 di marzo sempre lì? Le stesse leggi repubblichine consentivano all’Ufficio politico investigativo di trattenere gli arrestati per non più una settimana; dopo di che lei avrebbe dovuto essere rilasciato o portato a San Giovanni in Monte.
Sì, sono stato sempre lì, non ho mai cambiato fino a che non mi hanno detto «può andare a casa».
Adesso racconto un’altra cosa. Tutte le mattine, prima di andare agli interrogatori, si presentava un ufficiale e diceva: «Ehi, oggi prendiamo tuo fratello, che vogliamo impiccarvi tutti e due insieme, facciamo la coppia».
Torno indietro un passo.
Mia sorella Cecilia, due mattine dopo, non girava mio babbo per paura, venne per vedermi e la trattennero dentro anche lei, però non dove ero io, la misero da un’altra parte, non so dove, io non ho girato là dentro. Ho fatto quei ventitre-ventiquattro giorni proprio sempre in quella cella. Non lo so di preciso quanti giorni abbiano tenuto Cecilia, perché non l’ho vista. Perché io da là l’ho imparato da questa signora che si chiamava la Ballerini; lei la lasciavano venire dentro. I miei stavano in comunicazione con lei che abitava qui a Pian di Macina. La Ballerini era poi una zia di Ballerini Eros. Allora lei ha avuto comunicazione due o tre volte, che mi ha portato della roba da mettermi addosso; e poi del resto non veniva mica nessuno.Ricorda il giro che ha fatto dentro a Ingegneria, dove era la cella e dove andava agli interrogatori?
Ero a pianterreno, almeno mi sembra, non ho fatto delle scale per andare giù. Sono andato dentro da Saragozza; ricordo che davanti all’edificio c’era un piazzalino, ma dentro l’edificio non mi ricordo, perché sono andato dentro che ero già ridotto.... Dopo mi chiamavano nelle sale dove c’erano loro che erano là che mangiavano, che bevevano. Per andarci mi sembra che c’era una scalettina.
Non avevamo gabinetto nelle celle, dovevamo fare i bisogni sul pavimento. Con tutta la sporcizia che c’era, un bel giorno hanno detto: «Chi vuole avere un permesso di poter uscire nel cortile tre o quattro ore, sgomberiamo tutta questa puzza».
“Garibaldi”, l’avevano portato fuori per un rastrellamento, era tornato con delle balle di paglia. Allora ci fu chi aderì allo sgombero di questa m____. Finimmo che andavamo là che c’era una scalettino, mi sembra che si andasse su che c’era una specie di gabinetto, ma non è che ci fosse l’acqua, era tutto disfatto.
Invece all’ultimo interrogatorio non ricordo più di preciso se ho fatto lo scalone, perché la mia impressione era quella di dover morire lì, buonanotte suonatori, e non ho osservato.
Un’altra volta hanno preso una persona e quando venne dall’interrogatorio piangeva «Ho fatto dei nomi, mi dispiace, ho fatto dei nomi», era una disperazione, «però uno sono riuscito per mezzo di uno ad avvisarlo». Ma bisogna capirlo, se ha fatto dei nomi, con quello che si vedeva lì, era già finita la storia se ci cascavi dentro. Io sono stato interrogato venti-venticinque volte e battevano sempre su quel punto: «Lei conosce tutti suoi amici, se parla dopo può fare quel che vuole, dopo lei è già libero». Ma io dicevo «eh, già libero!» avevo sempre in mente quei due in Via Falegnami, e poi non ci sono stati solo quelli lì. Quando hai cominciato a cantare, te sei già finito. Pensavo: io ormai ci sono cascato dentro; allora mi ammazzeranno ma nei pasticci non metto nessuno. Figurati te, noi qui avevamo come una base, e ne abbiamo mandati diversi dalla “Stella Rossa”, come per esempio Giacometti Spartaco, che era di Bologna però aveva sposato mia sorella Cecilia e stava al “Pálazz di róssc”, ci si andava per il Molino Parisio. Si chiamava così perché confinava lì dove scaricavano tutti i ruschi, c’erano tutte le donne che andavano a scegliere.E quando è uscito da Ingegneria?
Vado giù, vado alla caserma “Pala”, non sapevo dove andare, perché non sapevo mica girare Bologna. C’era la caserma “Pala”, c’era la “Cialdini”; c’erano tutti gli sfollati. La “Pala” era giù dalla Nosadella e là sopra c’era la “Cialdini”. Allora mi sono recato là perché sapevo che c’erano tutti quelli di Pian di Macina. Come arrivo là, trovo “Cirulein”, si chiamava Mattei Luigi, che era là dentro sfollato con la famiglia. È stato decorato anche lui, la medaglia d’argento. «Beh, com’è che sei qui?» Dico: «Dio bono, come faccio adesso! Mi hanno detto che posso andare a casa ma io non so più da che parte andare, per andare in Via Catagnoli». Perché sapevo girare Bologna, ma non conoscevo i nomi delle vie, non li guardavo mai. Andavo giù per una strada e su per l’altra, a piedi o in bicicletta, e allora non c’erano divieti come adesso. Mi dice: «Va’ a casa, va’ via subito perché erano qua che ti cercavano adesso». Non ero ancora venuto fuori da là, da Ingegneria. Quella che le dicevano “la mâta”, la Mattei Marta, che abitava di sopra, me lo disse: «dài, non andare a casa, vai via». E da lì mi sono fermato da una famiglia che mi ha detto «Sta’ qui con noi, che non ci conoscono».
Alla mattina è arrivato mio babbo e mi ha portato in Via Mirasole che avevo zia Caterina, che avevano dato un posto a lei e a Marino, che era il più piccolo. Sono andato lì perché in Via Solferino, lì vicino, c’era un’osteria dove bazzicava sempre papà. Il padrone, era Stanzani, gli dice: «Portalo bene dalla Colombazzi Caterina». Sono stato lì forse una settimana. Da lì sono andato dopo, sempre per mezzo di questo Stanzani, da un suo parente, era vicino a Via Castagnoli. Sotto c’era un cinema che si chiamava Odeon. Così sono arrivato quasi fino alla fine di marzo.
Un bel giorno, facevano un film “Sangue e arena”, all’Odeon. La Viviana si prende di là, ci mettiamo d’accordo, dico: «ci troviamo per andare a vedere quel film lì» perché io l’avevo già visto, era un film che mi piaceva tanto. Vado dentro al cinema, io e lei, dopopranzo: la prima volta che sono andato fuori. Quando hanno finito il primo tempo, poi si spengono tutte le luci che comincia il secondo tempo, guardo da una parte e vedo che avevano bloccato tutte le uscite e le entrate.Erano tedeschi o repubblichini?
Macchè tedeschi! I tedeschi, neanche là all’Ingegneria io non ho mai visto un tedesco; c’era solo la “investigativa”. Allora, capisci, tutto in un bel momento, alè, uno accende una luce e poi con una lampadina di qua e di là e un’altro è venuto lì da me. La lampadina nella faccia e una rivoltella dice: «Non è lui». Appena si è spento tutto, pianino pianino mi sono alzato su e poi sono andato a casa e sono tornato nel mio rifugio. Io ero diventato come un ostaggio, per il fatto di mio fratello; tutte le mattine andavano a dire: «oggi lo prendiamo, lo prendiamo».
La “Vienna” era una bella donna, io me la ricordo, era una bella donna però quello che ha fatto… e poi è andata, m’han detto, nelle monache pentite. La “Vienna” ha fatto come ha fatto “Cacao”, stato preso, che era nella“Stella Rossa”. Si chiama Canova Giuliano; era stato su alla “Stella Rossa”, perché ci sono andato io, con il povero Mario, ci sono stato due o tre volte lassù. Ci conoscevamo bene, era uno del paese, come ci conosciamo noialtri, un cinno. È sempre stato un ignorantaccio “Cacao”, e si è dimostrato. Lui lì è stato preso e allora dopo si è messo al servizio delle SS, e l’hanno fatto fuori a Bologna nella caserma “Pala”.Chi l’ha fatto fuori? I fascisti? I tedeschi?
No, no non lo so. È stato mi sembra il Natale o la vigilia di Natale, insomma verso la fine del 1944. E lui, a Marzabotto conosceva i nomi di tutti i contadini che avevano collaborato con i partigiani, lui lì lo sai quanti ne ha sulla coscienza?
Era così nei rastrellamenti. Invece tanta gente sapeva ma sono stati zitti. Lo sai che davano un chilo di sale a chi denunciava un partigiano, e non è una fandonia questa. Quando io sono riuscito a scappare da qui, e mi sono nascosto, quella Paselli lì mi ha coperto i piedi quando sono venuti i tedeschi in un rastrellamento e io ero sotto a della paglia. Mi hanno girato intorno e poi con il moschetto, sempre stando sopra, io ero steso così e loro mi sono passati tra le braccia senza toccarmi. Dopo sono scappato e hanno tirato due mitragliate, ma io non le ho prese: perché quando sono andato su per scappare, ho sentito che parlavano e dico: «Dio bono, ci sono i tedeschi qui»; sono saltato dentro un roveto, c’era un bel salto di tre o quattro metri, e sono stato fermo lì. Loro hanno sentito tutto il trambusto, hanno cacciato due o tre raffiche con le maschinenpistole, però sono passate sopra. Se lo racconto nessuno ci crede. Se mi vedevano ammazzavano tutti quelli là. Erano venti-venticinque persone tutte fuori dalla porta, non dalla porta, fuori dal rifugio; perché avevano detto con i Paselli, avevano sei bambini, «qual è, qual è?». E io dico «vado sotto al materasso», ma dicono: «buttano dentro delle bombe!» sono scappati tutti, sono scappato anch’io in un posto dove facevano da mangiare. C’era della paglia, io mi infilo lì sotto, ma m’erano rimaste le scarpe di fuori; la Paselli venne indietro, ohi era una bambina, indietro indietro e mi coprì le scarpe. Fu la salvezza di tutti quanti, che lì poi avevano già ammazzato uno, un certo Cavara Cesare, che l’avevano ammazzato in questo rastrellamento.Ha più saputo niente dei fascisti di Ingegneria?
Dopo la guerra ero a casa senza lavorare, non si prendeva mica niente. Avevo fatto la domanda di andare a San Giovanni in Monte a fare il secondino; allora mi mandano a chiamare. Quando sono in Via Cartolerie ho trovato un ragazzo di quei repubblichini che erano là dentro a Ingegneria, perché erano tutti ragazzini, tutti cinnazzi.
Allora, ero in bicicletta con la moglie, no non eravamo ancora sposati, e venivo giù verso la piazzetta dei Garganelli per Via S. Rita. Quando arrivo lì «Dio bono, ma quello là è quello che mi ha spuncionato nella schiena quando andavo al gabinetto».
Allora tàc, gli taglio la strada con la bicicletta che ci avevo la Viviana sopra. Gli dico: «Mi conosci?» lui fa: «perché?» e io «guardami mò bene». Dice «Sì, un po’ di vista» e subito fa «però io non ti ho fatto del male» subito lo dice, capito? Si raduna tutto un branco di gente, fanno: «Beh, poi non gli fa niente?» «Io potrei essere suo padre di loro lì, di tutti quei cinni». Lui dice «Io tutte le mattine vado a firmare» perché era stato preso e andava a firmare la presenza in Via Cartolerie. Cosa c’era lì, c’era un commissariato?
Allora per finire, vado là, mi presento a San Giovanni in Monte per andare al servizio. Arriva uno, mi comincia a guidare dentro: «Questo ha fatto di qua, questo di là, questo ha l’ergastolo» e io non vedevo l’ora che finisse tutto il giro. Avevano fatto un mucchio di arresti subito dopo la Liberazione, ma poi ne sono anche scappati, ci fu un’evasione. Sento: «Bonafede! Cosa fai lì?» e mi si gelò il cuore. Dentro alla celle con noi a Ingegneria c’erano anche dei repubblichini. C’era chi era lì perché aveva commesso qualcosa e chi era messo per ascoltare. C’era uno, non eravamo amici però ci conoscevamo, gli chiedo: «Perchè ti hanno messo dentro?» Dice: «Sono andato a vedere in un posto che c‘erano tante bestie e dei buoi; ce n’erano due che avevano già la mordacchia, ho preso la mordacchia, sono venute con me» e era andato a venderle. Altri erano lì per sentire se dopo le botte parlavamo tra noi: «ha detto niente quello là?». A me hanno dato una castigata che ho tribolato e tribolo ancora.
Durante una inaugurazione, quando qui a Pianoro hanno scoperto dove c’era il rifugio, ho parlato con Rocca, Rocca Quirico, e mi ha detto che è stato anche lui a Ingegneria. Ma non era nel periodo che ci sono stato io, non so se era nei partigiani o no, non abbiamo parlato perché non c’era il tempo.
Una rara immagine scattata nel periodo bellico. Nato a Pianoro il 7.6.1916 da Domenico e Maria Burzi; Ivi residente nel 1943. Operaio. Licenza elementare.
Militò nella 62.a brg Camicie rosse Garibaldi ed operò sull'Appennino tosco-emiliano.
Fu incarcerato a Bologna dall'11.2.1945 al 6.3.1945. Riconosciuto partigiano dall'1.11.1943 alla Liberazione.
Fotografia di Lidovino Bonafede (Piroti)
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Fernando Piretti,
sopravvissuto a Cerpiano |
Testimonianza raccolta da S.Muratori il 19 Marzo 2010
Quando ero piccolo abitavo a Casa Veneziani, dove abitava Musolesi, quello della Stella Rossa, proprio in quella casa lì. Era un casone con quattro o cinque appartamenti. Eravamo tutti affittuari, tanto è vero che mio babbo addirittura io lo vedevo una volta alla settimana perchè non avendo la tessera del fascio lui doveva andare all’elemosina. Quando ritornava portava a casa i crostini che gli davano. Ad un certo punto, quando io avevo sei sette non avendo più i soldi per pagare l’affitto siamo venuti su ai Sassoni, una casa con una terrazza a piano terra, e le cantine sotto. Noi avevamo una camera su di sopra, ma erano spazi piccoli. Anche lì ai Sassoni erano tutti affittuari. I contadini erano più su, all’Infilungo. Dopo la guerra per fare l’autostrada hanno buttato giù sia i Sassoni che l’Infilugo.
Anche ai Sassoni mio padre continuò a fare sempre la solita cosa, andava in giro per vedere se qualcuno gli dava qualcosa. Non avendo la tessera, niente lavoro, e lui non la voleva prendere, non c’era niente da fare. “Piuttosto” diceva, “vado all’elemosina, ma quella lì non la prendo”. Non sò bene il motivo, ma con il fascio non ne voleva sapere.
Noi eravamo in sette: c’era Agostino, il marito della Iole qui, poi c’era Giuseppe, poi c’ero io, poi c’erano la Rina e la Teresa, che poi è morta lassù, insieme a me, a Cerpiano.
Io sono stato l’ultimo nato nel 35, e avevo nove anni nel 44.
Io feci le scuole elementari qui a Gardelletta, con la maestra l‘Izzani. Suo marito era un fascista convinto, e quando parlava il Duce per radio bisognava stare sull’attenti. Se uno si trovava lì bisognava stare in silenzio ad ascoltare. Anche noi che eravamo piccoli dovevamo stare sull’attenti con Izzani. Lui faceva il sindacalista.
Quando iniziai ad andare a scuola a Gardelletta Vecchia c’era sia la scuola sia l’asilo. L’asilo lo teneva la Benni. C’era uno stabile ed al piano di sopra c’era la prima e la seconda classe, ed io le avevo fatte tutte due.
I genitori di Fernando Piretti |
Noi eravamo molto poveri, e quando venivo a casa da scuola andavo a fare dei lavoretti per la signorina Benni, quella che si salvò con me. Lei mi faceva fare delle cose, tipo piegare un bussolotto, poi mi dava anche qualche soldino, e quello che mi dava lo tenevo io.
Poi c’era anche un falegname che abitava proprio lì di fianco a noi, poi dopo si trasferì al mulino. Lo chiamavano Poldini: ogniuno aveva il soprannome, il mio era Pippi.
Poldini mi faceva lavorare per insegnarmi a lavorare da falegname, e io lo aiutavo. Lui non mi dava nulla, ma io cercavo di imparare, e mi piaceva anche. Davo la pialla, c’era da incastrare delle cose. A quel tempo si faceva tutto a mano.
Vicino a casa nostra, appena fuori da Gardelletta, passava un fosso che veniva giù da Monte Sole. Nel 44 lì c’era la passerella, perchè il fosso era alto un metro o un metro e mezzo. Quando i partigiani iniziarono ad organizzarsi quel punto diventò un abituale luogo di scontri a fuoco. Successe anche qualcuno uccise un tedesco, e da quel giorno iniziarono a fare rastrellamenti, quasi tutti i giorni. Quindi succedeva spesso che ci fossero scontri con i partigiani, che erano posizionati a Infielugo, dove mio fratello era a fare il garzone, e la mia famiglia a quel tempo riusciva a tirare avanti con quel poco che prendeva lui. Almeno lui era andato a fare il garzone da mio zio.
C’erano spesso degli spari, e I Sassoni rimaneva proprio di fianco al fosso, che era il punto più caldo. Quindi fummo costretti a trasferirci tutti su a Cerpiano.
A Cerpiano eravamo in sei o sette famiglie, e c’era la maestra che teneva dietro ai bambini. Ma non è che ci insegnasse, ci teneva lì per fare qualcosa.
La maestra Benni era di Gardelletta, e si era trasferita lassù anche lei, perchè qui in fondo sparavano e la gente diceva:
“almeno andiamo su in montagna che lassù in mezzo chi vuoi che venga a sparare”, perchè qui in fondo con la strada che era un obiettivo dei partigiani c’erano sempre dei combattimenti. Lassù ci dava l’impressione che fosse più sicuro. Cerpiano era un caseggiato con un oratorio, e lì c’erano le suore Orsoline. Ci avevano presi tutti insieme lì, e ci avevano dato una camera per ogni famiglia.
Fra i bambini io ero fra i più anziani, e venni anche interrogato per sapere dov’erano i partigiani. Venivano dei gruppi che parlavano in italiano, ma io non li conoscevo. Mi promettevano una cioccolata, ma io non ho mai accettato. Io avevo i miei fratelli nei partigiani, e non ci pensavo nemmeno di dirgli dove si trovavano.
A Cerpiano qualche volta i partigiani li ho visti da lontano. I miei fratelli venivano a trovarci, ma rimanevano due o tre minuti poi tornavano via. Magari potevano essere su a Monte Sole, ma da Cerpiano a Monte Sole ci sono dei chilometri.
La verità è che i partigiani non avevano più munizioni, tanto è vero che i miei tre fratelli quando a Castiglion dei Pepoli hanno imparato che i tedeschi avevano fatto la strage volevano tornare indietro. Poi li hanno convinti a lasciare stare, perchè li avevano già uccisi, poi non avevano le munizioni. Sono poi andati in Toscana, con tutto il gruppo, per trovarsi vicino agli americani.
Fernando Piretti in una foto pubblicata da Gente dopo la liberazione |
Piretti nella posizione nella quale si trovava con la madre e la sorella il giorno del massacro
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Piretti indica la porta laterale nella quale venne ucciso il contadino |
Quando fecero il massacro di Cerpiano io ero dentro con tutti gli altri, e fui ferito in una spalla.
Io ero vicino a mia mamma e ci trovavamo di lato vicini alla parete. C’era molta gente e non si vedeva che cosa succedesse. Davanti alla porta avevano piazzato una mitraglia. Ad un certo punti dissero: “tutti kaput”. Allora io lo chiesi a mia madre:
“cosa vuole dire”
“ah, qui hanno detto che ci ammazzano tutti”.
Oh, comunque io ho avuto questa ferita, appena forata la pelle, ma non è che sia rimasta la pallottola dentro. Però per me è passata prima da mia madre, poi siccome ero lì di fianco a lei è finita lì.
Ma quelli davanti alla porta erano tutti tagliati a metà sai ?
Perchè avevano messo questa mitraglia lì a due metri, alla distanza dalla porta all’uscita erano due metri.
C’era anche il padrone dell’Infielugo, che era sempre stato un fascista, e lui gli fece vedere la tessera del fascio, allora il tedesco gli chiese con ironia:
“perchè tu avere la tessera e essere qui in mezzo ai partigiani ?”
Lui non era l’unico uomo, perché c’era anche il contadino.
Questo contadino voleva uscire dalla porticina che dietro all’oratorio porta alla canonica. Qualcuno infatti aveva liberato le mucche prima che il fienile e la stalla fossero incendiati e le mucche erano andate nella “spagna” fresca. Allora questo contadino disse:
“aspetta che se le mucche mangiano lì scoppiano tutte”.
Lui voleva solo andare a mandare via queste mucche. Figurati che loro erano andati a dare fuoco anche al fienile, la stalla e tutto, ma almeno lì avevano dato la molla alle bestie, e loro andavano a mangiare dove c’era la roba buona. Questo contadino pensava alle mucche. Gli diedero un colpo proprio sulla porta, ed è rimasto lì di traverso sul gradino.
Subito dopo il massacro cercammo di andare via da Cerpiano, speravamo di passare di là dal fiume, invece sopra a Campo Lungo ci hanno bloccati. A Campo Lungo, sopra alla galleria, c’era un terreno pari, però c’era una postazione scavata sotto. Avevano messo sopra degli scuri, e loro stavano lì sotto. Noi eravamo partiti alla mattina presto, e non si vedeva nessuno. Il bosco ci copriva, solo che quando arrivammo lì si alzarono gli scuri e ci bloccarono. Rimanemmo tutto il giorno dentro alla postazione, ed alla sera ci fecero andare giù, nella galleria lì sotto dove c’era una gran puzza di morto, e c’era il loro comando.
Dal comando poi cominciarono a caricare le munizioni per farcele portare su a Cerpiano. Siamo tornati su a Cerpiano, poi da cerpiano a Casaglia, poi siamo andati giù a Caprara. Sempre a piedi, che io perdevo le scarpe nel fango che c’era. Due tre volte mi sono fermato a prenderle su, perchè si piantavano. Facevano portare le munizioni a mio babbo.
Così dopo che ebbero fatto il massacro ci fecero rimanere a Cerpiano ancora due o tre mesi, per portare su le loro munizioni.
Ci avevano fatti sistemare di nuovo a Cerpiano, nel palazzo. Quella casa era di tre piani, ed era la più bella. C’eravamo io, mio babbo e quelle altre persone che erano nel rifugio, e perciò si erano salvate. Seppellimmo tutti nella buca comune, tutti insieme lì di fianco all’oratorio.
Fernando indica la posizione nella quale fu fatta la fossa comune |
Fernando indica i nomi della madre e della sorella sulla lapide posta all'ingresso dell'Oratorio |
Pensa che il rifugio era vicinissimo, qui c’era Cerpiano, andavi un pò in là poi era lì, a cinquanta metri, e i tedeschi non ci sono micca andati su, perchè era un pò in mezzo al bosco ed avevano paura di qualche cecchino. Il rifugio comunque era profondo solo cinque o sei metri, e non sarebbe stato possibile entraci in tanti.
Ora, a strage finita, i tedeschi trattenevano gli uomini per fargli trasportare le munizioni sulle montagne, e le donne per farsi servire, facendogli fare da mangiare, poi di notte le violentavano.
Quando poi gli americani cominciarono a bombardare la casa, dai piani sopra ci misero in cantina.
Dopo pochi giorni dalla strage arrivò anche Reader, che aveva trasferito il suo posto di comando da casa dei Zanini a Cerpiano.
Appena arrivato disse alle donne: “venite su a fare da mangiare”
Dissi io:
“stai a vedere che ci vuole ammazzare un’altra volta”
Invece per le donne, alla sera dopo mangiato, le mandavano indietro nude, quindi vuole dire che qualcosa era successo. Addirittura una ragazza, la Dainesi, noi la nascondavamo sotto a un tino, perchè sennò avrebbero preso anche lei, che era ancora giovane, aveva quattordici o quindici anni. Le donne invece, dopo fatto da mangiare....
Anche il prete di Sasso è un Zanini, ed è venuto due o tre volte a chiedere il perdono. “Cosa cerchi: dare il perdono ? dico, dare il perdono ? bè oh, cosa gli ha fatto mia madre ? e mia sorella cosa gli faceva ? Cosa avevano fatto per andarle ad ammazzare ?”
“Io debbo perdonare ? Io non perdono niente”
Ad un certo punto iniziarono ad arrivare cannonate sempre più vicine alle case. Prima di riuscire a prendere la mira con le cannonate era passato del tempo, perchè certamente gli americani avevano qualche osservatore che gli diceva: “più in alto, più in basso”
Ed infine anche dalla cantina ci mandarono via. Quando cominciarono a colpire le case di Cerpiano ci dissero: “potete andare, perchè in cantina ci veniamo noi”. Infatti quando la centrarono la casa venne giù tutta.
Reader rimase lì fino all’ultimo giorno che io rimasi lì.
Quando andammo via ad ogni postazione di tedeschi dovevamo dare la parola d’ordine, perchè nonostante fossimo insieme a dei tedeschi che ci accompagnavano, per assicurarsi che non fossero tedeschi fasulli si doveva sempre dare la parola d’ordine all’altolà. Poi il nostro accompagnatore gli spiegava che doveva accompagnarci via. C’erano sei o sette postazioni lungo la strada che da lì ci portò a Marzabotto. Poi da Marzabotto ci caricarono con un camion ed andammo ai Gessi, che è di là da Mongardino. Ricordo che una notte arrivò un allarme e ci fecero andare tutti dentro al campanile, cosa che mi stupì, ma evidentemente secondo loro era più sicuro. Passammo una notte dentro al campanile, poi il mattino seguente ci tornarono a caricare poi ci portarono su a Mongardino.
Io ero rimasto assieme a mio babbo. Ad un certo punto ci liberarono, ci dissero che potevamo andare via. Allora andammo giù da Mongardino a piedi dalla parte di Gesso. Ricordo che nell’andare in giù vedemmo un partigiano impiccato alla quercia che c’è nella curva. Quella quercia c’è ancora, e la chiamano la quercia dell’impiccato.
Andammo giù dal Gesso, poi a Casalecchio ed attraversammo Bologna. Quando arrivammo a Bologna mio babbo iniziò a sentirsi poco bene, e decise di andare all’ospedale. Lo aspettai a lungo, però da lì non uscì più fuori. Lui aveva il diabete, ma si trascurava, e dopo 15 giorni morì.
Così mi ritrovai con un’altro fratello più giovane, e assieme andammo a Medicina da mia sorella che aveva sposato un militare di guardia alla Direttissima.
Per arrivare a Medicina impiegammo 3 giorni.
A Medicina eravamo insieme ai contadini. Mio cognato faceva il sorvegliante: teneva dietro alle donne della risaia. Anch’io ho fatto una stagione a raccogliere il riso, anche se ero un ancora bimbo. Poi un chilo di riso spettava anche a me, non so se era un chilo o mezzo chilo. Tutti i giorni un chilo di riso a testa, poi mi pagavano anche.
Dopo sei sette mesi siamo tornati su.
Dopo il ritorno a Gardelletta andammo per un periodo a San Giorgio di Piano.
Era passato un anno dalla strage quando andai là, assieme a mia moglie e tanti altri.
Era una organizzazione per aiutare i montanari, e per tre mesi ci prendevano come loro figli, siamo stati ospitati nelle case di queste persone.
Erano un gruppo di comunisti che si erano radunati insieme ed avevano fatto la richiesta di prendere un bambino di Marzabotto, per tre mesi. In quel libro dei ragazzi del 44 c’è scritto.
Con mia moglie ci conoscevamo già, ma abbiamo passato assieme anche quel periodo lì.
Quando andai a San Giorgio avevo già fatto la terza, perchè laggiù me la fecero ripetere tutta. Si vede che là erano più avanti. Quando arrivai là mi interrogarono un pò e poi mi chiesero: “allora che cosa vuoi fare: vuoi fare la terza o ti mettiamo in seconda”. Praticamente mi retrocessero in seconda.
Ricordo che c’erano i preti che dicevano: “non mandateli perchè giù di lì sono tutti comunisti”
E poi dicevano che ci avrebbero presi per metterci dentro al forno!
Una volta guarda, la gente era così.
Noi andavamo giù per mangiare qualcosa anche durante l’inverno, perchè qui non c’era un cavolo, hai capito.
Dopo poi tornammo qui in quel palazzo lì di fronte alla bottega.
Festa a San Giorgio di Piano con i Bambini di Marzabotto |
I genitori non li avevo più, avevo una cognata che si è sposata con mio fratello, ed abitavamo tutti in una famiglia dentro a quella casona lì, di fronte al negozio. Io poi ho continuato la scuola fino alla quinta elementare.
Prima di andare in posta ero a casa, facevo delle domande. Lo stato mi dava 6.000 lire al mese, come orfano di guerra. A diciassette anni e mezzo però non mi è più arrivato nulla, perchè si vede che avevano già accettato la domanda alle poste, non lo so, solo che un bel giorno è sparito tutto.
Quindi ho avuto un periodo in cui non ho più avuto nulla.
A 18 anni fui assunto alle poste, e feci due anni e mezzo il fattorino, poi mi chiesero se sapevo fare qualche mestiere. Io dissi: “ho fatto il falegname”.
Perchè su all’economato c’era da fare di tutto: da aggiustare delle porte, mettere su dei vetri, aggiustare delle chiavi, per la cassette della posta. Quando le chiavi si rompevano io le rifacevo a mano, con la lima. E le facevo uguali.
Mi sono sposato a 30 anni. Poi sono riuscito anche a farmi questa casa qui. E’ tutta qui la casa.
Dopo anche nelle poste ho fatto il falegname, che l’ho fatto per parecchi anni. Io prendevo sei mila lire più della paga, per extra lavoro, solo che io ne prendevo 6000, invece i portalettere ne prendevano 9000. Dico: “allora che cosa sto qui a fare, vado a fare il portalettere anch’io, almeno sono tre quattro mila lire in più.
Facevo il postino a Gaibòla, sui colli. Andavo a dare la posta, ma nello stesso tempo facevo un altro lavoro qui: facevo le canne da pesca. Montavamo le canne telescopiche. Io per avere un pò di libertà andavo in quel posto lì che ci mettevo due ore, con la macchina, poi prima di rientrare andavo in magazzino a prendere le canne; poi andavo a Bologna a consegnare la borsa e infine venivo a casa. Perchè allora si faceva mezza giornata. La strada era lunga, ma con la macchina si andava bene, e non c’era tanta roba. Però era scomodo perchè a volte dovevo fare trenta chilometri e più. Da qui a Bologna giù in ferrovia, poi dovevo venire sui Colli e andare fino a Paderno, dove c’è l’albergo, poi dovevo andare anche un pezzo più in là. Dovevo andare giù, perchè i contadini erano sparsi di quà e di là: insomma facevo un casino di chilometri, ma avevo messo insieme una macchina con il metano, con le bombole. Anche con la neve dovevo andare su. Una volta ho preso anche un verbale perchè non ho portato il giornale a una signora.
“Guardi che il giornale, signora, se non me lo danno non posso micca portarglielo”
Avevano fatto sciopero il Carlino: “E’ il Carlino che ....”
Lei voleva il giornale, allora ha reclamato giù alle poste. Andavo fino vicino a Pianoro, bè se non c’è il Carlino debbo andare fino lassù lo stesso?
Io ho sempre fatto il mio dovere, però questa qui. Bè dopo c’è andato un’altro in quel posto lì.
Adesso passo da pensionato.
Io ho lavorato in posta dal 53 all’80. Mi hanno dato i 7 anni di abbuono, ma poi mi hanno tenuto giù dalla pensione.
Vado a funghi, vado a pescare, perchè io facevo le canne da pesca. Però vado ai laghetti, perchè tanto nel fiume non si vede più un pesce. Fra gli aironi, i gabbiani, quelli lì puliscono tuttò eh ? I pesci più grossi li hanno fatti fuori tutti. Una volta tre anni fa si prendevano dei Barbi così, adesso non si vede più niente. Cosa vado a pescare a fare? per prendere della Quadella ? Poi anzi, neanche la quadella. I Barbi di 18 centimetri addio! Perchè non ci andate voi là a prendere un Barbo di 18 centimetri.
Ho un figlio. Poi ho quello lì, un Labrador maschio, che è come un figlio. Però quando deve mangiare .....
Adesso ti offro da bere. Ti dò un amaro: amaro Felsinea, della Buton, me lo passava mio cognato che aveva il negozio.
Da Marzabotto Parla, di Renato Giorgi
edito nel 1955
Nell'oratorio di Cerpiano ammucchiano 49 persone, di cui 19 bimbi e 25 donne. I bimbi sono messi in fila contro il muro esterno e con promesse di cibo e danaro a lungo invitati prima, e minacciati poi, a dire quanto sanno dei partigiani. I bimbi non parlano e vengono di nuovo scaraventati nell'oratorio. Segue subito un primo lancio di bombe che assassina trenta persone.
Poi le ss decidono di riposare e a lungo gozzovigliano fuori dall'oratorio. I lamenti di una ferita agonizzante li disturba.
È la signora Nina Fabbroni Fabbris di Bologna che un nazista si affretta a finire. Emilia Tossani e il vecchio Pietro Orlandi con la nipote tentano la fuga: vanno poco oltre la soglia. I nazisti possono gozzovigliare tranquilli. Fernando Piretti, di otto anni, si salva, e credendo che i nazisti siano lontani, estrae di sotto il corpo della madre la bimba Paola Rossi di sei anni, anch'essa viva. Ma i nazisti tornano e la maestra Antonietta Benni, terza fortunosamente incolume, è ancora in tempo ad occultare i due bambini sotto una coperta.
"Ero maestra d'asilo nel paesino di montagna – riferisce la maestra Benni – La mattina era tetra e fredda, come accade in montagna quando piove. Prima delle 8 del 29 settembre i nazisti piombarono tra le case, vi fecero uscire tutti all'aperto e ci rinchiusero nell'oratorio. Eravamo in molti, quarantanove, tutti donne, vecchi e bambini.
Speravamo che non ci facessero niente. Invece dopo un po' si aprì la porta e comparvero alcuni nazisti dalle facce paurose, che stringevano per il manico le bombe a mano e guardavano verso di noi come chi sceglie un bersaglio. "Gente, dite l'atto di dolore, che ci ammazzano tutti!", gridai io. Dalla porta e dalla finestra cominciarono a scagliare su di noi le bombe a mano: noi si urlava, piangeva, implorava, le madri stringevano a sé i figlioli, i bimbi si rannicchiavano sui petti delle madri, nascondendo il viso e cercando scampo. Io caddi svenuta.
Quando tornai ad aprire gli occhi: "Sei viva?", "Sei morta?", sentii bisbigliare con voce affranta nell'oratorio quasi buio, e i pianti desolati delle donne e i lamenti dei feriti, strazianti si levavano intorno a me. Dovevano già essere morte una trentina di persone, quasi tutti gli altri feriti da schegge. Tutto il giorno i nazisti rimasero di sentinella fuori dall'oratorio, e tutta la notte. Avevano fatto dei buchi alla porta, guardavano dentro e ridevano. Di quando in quando le sentinelle entravano e finivano i feriti a colpi di rivoltella. Fuori si sentiva una grande confusione: erano i nazisti ubriachi che suonavano la fisarmonica e cantavano a squarciagola.
Durante la notte una donna, che forse fino a quel momento era rimasta priva di sensi, cominciò a gemere supplicando che le portassero via il marito caduto a bocconi sopra di lei. Comparve una sentinella, sentii rintronare un colpo di pistola accompagnato da una sghignazzata. Da quel momento nessuna voce si levò più da quell'orribile carnaio.
Frattanto un maiale affamato, che la sentinella aveva lasciato entrare nell'oratorio, grufolava rovistando tra il cumulo di cadaveri e mordeva le carni dei morti. Un vecchietto tentò di fuggire dalla porta tirandosi la nipotina per mano: li ammazzarono immediatamente.
La mattina del 30 settembre i superstiti supplicavano: "Lasciateci andare fuori, abbiate pietà di noi!". "Tra venti minuti tutti kaput", fu la risposta dei nazisti. Come avevano detto, dopo venti minuti seguì la strage.
Ci salvammo solo io e i due bimbi Paola Rossi e Fernando Piretti. "Anche la mamma è morta, anche la nonna!", singhiozzavano i bimbi disperati, inginocchiati sui cadaveri dei loro cari. Stavamo per uscire dall'oratorio, quando ci accorgemmo che le ss ritornavano. Nascosi in fretta i due bimbi sotto una coperta, raccomandai loro di non muoversi, e mi finsi morta tra i cadaveri. I nazisti entrarono per controllare che tutti fossero morti e per depredare i cadaveri. A me sentirono la mano, che per fortuna era gelida, e mi strapparono la borsetta.
Più tardi sopraggiunse un giovane di Vado, Francesco Lamberti, che mi portò in salvo con i due bimbi. Di lì a qualche giorno, nella casa dove mi ero rifugiata, arrivarono ancora i nazisti e io credevo fossero venuti a prendermi; vennero invece ad avvertirci che tra poco avrebbero seppellito le persone dell'oratorio, "uccise dai partigiani", dissero. C'era anche il maggiore monco, Reder, lo ricordo bene".
Dal libro Il Massacro di Baldissara e Pezzino
Il ritorno di Reder a Cerpiano è ricordato anche per le violenze sessuali alle quali lui e i suoi ufficiali (in particolare il medico Schildbach) sottoposero alcune donne, che erano state prese nel rifugio vicino a Cerpiano e portate nella cantina della casa dove era stato fissato il posto di comando e di medicazione. Due di loro erano sopravvissute, con ferite, ai massacri della zona-una terza avrebbe perso il figlio per le ferite riportate; quattro delle cinque donne li presenti denunciarono la violenza subita_ la quinta, che aveva quindici anni, nella sua testimonianza non farà mai cenno a questa seconda tappa del suo calvario. Diamo la parola a una delle due sorelle che fu costretta a rapporti sessuali dai tedeschi: la seconda notte «gli ufficiali scesero in cantina ove io dormivo con gli altri civili e fecero alzare alcune delle donne comprese mia sorella [...1 e me, e ci fecero andar sopra. Fummo costrette a spogliarci, e una essendosi rifiutata‑
venne spogliata e le bruciarono gli abiti». Ecco la testimonianza di quest'ultima:
Quattro militari vennero a svegliarci dicendo che per ordine del comandante dovevamo andare in cucina per far da mangiare e lavare le stoviglie. A ciò fummo obbligate io, le [due sorelle] e la [ ... ] Avevo tentato di oppormi ma due di questi soldati più volte mi scoprirono e mi obbligarono ad alzarmi. Giunta in cucina un militare, che non so dire se soldato, graduato od ufficiale, mi strappò la veste buttandola nel fuoco. Io cercai di fare resistenza, ma il militare, minacciandomi di morte con la parola caput, mi costrinse a cedere alle sue voglie malgrado che io gli facessi presente di essere una donna anziana [aveva trentasette anni]. Mentre io entravo in cucina vidi uscire le sorelle [ ... ] tra due militari e mi parve che anche esse avessero le vesti strappate. Io ritornai in cantina dopo circa un'ora,