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«È un comandante di formazione partigiana; una vecchia volpe, credo che per farlo parlare dovremo accarezzarlo per bene e fargli un buon contrappelo». Capii che mi avrebbero torturato. Cercai di farmi coraggio. Dovevo essere forte, perchè così erano stati i mille e mille compagni prima di me.
                                                                                                             

 

 

 

 

Memoria e Resistenza

 

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Per ora come articolo introduttivo abbiamo lasciato questa testimonianza di un partigiano, tratta da: Epopea Partigiana

Antonio Meluschi (a cura di), Epopea partigiana, Bologna, SPER, 1947

http://www.istitutoparri.eu/engine.aspx?o=doc&;doc=224&sez=49&lang=IT

 

 

Francesco Leoni – Comandante di Compagnia (Btg. Busi)
(nota: il racconto di Francesco Leoni è citato anche da Ledovino Bonafede)


“Buona notte babbo” … povero babbo mio, non l’ho mai più riveduto … Era un imbrunire freddo, sembrava che anche la natura quella sera fosse contro chi aveva il cuore statico, i nervi tesi, la mente sempre altrove.
Il pensiero era rivolto a quei compagni che da qualche tempo i briganti neri avevano arrestato.
Nel rincasare, frettolosamente perchè dovevo preparare un’opera di sabotaggio da compiere la sera stessa, incontrai Giorgio, il quale mi disse: «hanno trovato il capo della matassa, quelli del battaglione Busi sono scoperti ».
Non volevo crederci, la fede che avevo nei compagni superava ogni dubbio e non mi sgomentai eccessivamente, però un triste presentimento si impossessò di me e sentii che quella sera non avrei agito con lo slancio delle altre volte.
Rincasato, ne parlai con mio figlio, e anche lui fiducioso nei compagni, disse: « se avessero parlato, a quest’ora chissà dove saresti ». Però non ero capace di tranquillizzarmi, e feci avvisare i componenti della mia compagnia che quella sera non saremmo usciti. Erano le 22 circa, quando una suonata di campanello trillò. Mia moglie e la mia bambina impallidirono; mio figlio ed io ci rendemmo conto di quanto stava per succedere. Una nuova ed insistente suonata, e una voce rabbiosa, gridò: « aprite! se non volete morire tutti! ».
Balzai in piedi, mio figlio mi afferrò; voleva fermarmi, gli sfuggii e andai ad aprire; erano « loro » coi passamontagna calati, come portavano i boia di Francia. I primi ad entrare mi spinsero al muro, appoggiandomi qualche cosa al ventre, istintivamente vi posi la mano, sentii qualche cosa di freddo, più freddo della morte; erano le canne dei mitra, e uno dei briganti neri disse: « alza la mano: o ti finisco qui ». Una forte luce mi accecò, poi intesi il grido di chi crede di aver scoperto una grande cosa. « è questo; è nelle nostre mani! ».
Una voce, quella del comandante, ordinò: « caricatelo sul camion ». Mentre stavano per legarmi come gli altri, che già erano sull’automezzo, il comandante con un contro ordine mi fece riportare in casa.
Mi spinsero nella mia camera; là vi era mio figlio in mezzo a due ufficiali della brigata nera; pensai che volessero arrestare anche lui: fortunatamente, lui non sapeva nulla.
Uno di questi ufficiali con voce autorevole mi disse: « se parlerai ti lasciamo a casa! » ; poi, posando la mano sulla pistola, continuò: « diversamente, noi non scherziamo » . Mi sentii la voglia di sputargli in faccia, di offenderlo come si meritava, ma mi sovvenne che nella camera attigua vi era mio padre morente e, fu così che mi limitai, dicendogli di non fare baccano, perchè di là c’era uno che stava male.
« A noi non importa, parla, e dì subito il nome dei tuoi uomini, perché sappiamo che sei comandante di una formazione » . Risposi che non capivo cosa intendessero dire!...
Il mio ragazzo guardandomi voleva dimostrarmi di essere sereno, mentre in lui vedevo la sofferenza del figlio che sa dell’imminente perdita del padre.
Quello che aveva l’aria del comandante ripetè con aria minacciosa : « su, parla, altrimenti imparerai chi sono » . — « Non ho nulla da dire » risposi. — « Caricatelo nuovamente » disse uno che aveva un giubbone alla tedesca.
« Signori », dissi: « nella camera vicina c’è mio padre morente, concedetemni che gli dia la buona notte». Quello del giubbone alla tedesca, con aria di chi sa dare degli ordini, disse: « non abbiamo tempo da perdere, portatelo via ». Povero padre mio, non l’ho mai più riveduto, forse aveva sentito tutto. Dopo cinque giorni mia moglie lo trovava freddo nel suo letto.
Buona notte, babbo, l’eterna notte sia riposante per te: tuo figlio ormai libero te lo augura. Nuovamente mi caricarono sul camion, pensai che la mia vita stava avviandosi verso una prova che in considerazione della mia salute temevo di non affrontare.
Sul camion incominciò una nuova serie di minaccie, confuse promesse: « devi dire dove stanno il commissario e la staffetta, della tua compagnia, così ti riportiamo a casa ». C’era invece chi diceva: « è meglio ammazzarlo, è una vecchia volpe, e da questi si impara poco ». Un altro esclamò con scherno: «patriota di m____, non vuoi parlare, ebbene, ti faremo parlare noi, abbiamo dei sistemi che danno degli effetti meravigliosi ».
Mi venne in mente il famoso detto dei comunisti: (me lo aveva insegnato Gustavo Trombetti) « Quando si deve affrontare un interrogatorio, si pensa di dover subire una operazione chirurgica da sveglio ». Questo ricordo mi rendeva sicuro di me stesso.
Giunti al crocicchio di via Libia e via Oms, dove abitavano il mio commissario Ermete Ghini e la staffetta Bullini Valda, mi fecero scendere.
Nuovamente incominciarono a farmi delle domande, e quello del giubbone alla tedesca, mettendomi la pistola vicino ad un orecchio, disse: «è giunta la tua ora. Parla, o ti uccido». In quell’istante un altro alzò il calcio del moschetto per darmelo sulla testa; se avesse mollato mi avrebbe spaccato il cranio, ma un ufficiale lo fermò, mi venne vicino e con l’aria di chi vuole essere magnanimo mi disse: «non fare il testardo; in fine non siamo quelli che voi ribelli ci credete, non hai che dire dove stanno il commissario e la staffetta e tutto è finito».
«Tenente, gli dissi, non conosco staffette né commissari e ripeto che debbo ancora capire il perché di tutto questo».
Fu dato ordine di portarmi alla scuola di Ingegneria. Là speravano di farmi parlare; caricatomi di nuovo sul camion, furono minacce e ingiurie.
Erano le due circa quando mi tolsero i documenti e mi misero in cella. Avevo molto freddo e una sete irresistibile. Nell’androne del palazzo montavano di guardia le sentinelle tedesche.
Alla destra di chi entra vi erano le camere della morte.
La prigione consisteva in un salone freddo, umido, senza finestre, e, mi sia lecito, dirlo, senza il vaso di decenza. In un angolo vi era un mucchio di cenci e sul momento credetti di essere messo in isolamento. Invece da quel mucchio di cose vidi un uomo muoversi; era un detenuto che si voltava per vedere che cosa succedeva. Mi accorsi che vicino a lui ve ne erano diversi altri, e seppi poi che si stava così ammucchiati per farsi caldo a vicenda.
Dopo usciti i briganti mi furono fatte diverse domande; se venivo dalla montagna o se ero delle formazioni di città. Ritenni prudente non parlare; anche loro cessarono l’indiscrezione, e fui invitato a far parte del mucchio.
Come chi è in un sogno cattivo, mi misi vicino a loro. Sfortunatamente ero col viso vicino a un buco fatto nel pavimento, che serviva per « Buiolo ». Il puzzo mi dava disturbo di stomaco, e la sete si faceva più tormentosa: chiesi se vi era acqua, mi fu risposto che di notte lasciavano sempre senza acqua e molte volte anche di giorno. Guai a bere poco quando passava la guardia con l’acqua, dopo non si beveva più.
Dopo un’ora circa, quattro sgherri mi vennero a prendere. Due di questi avevano il mitra, uno la pistola, e un nervo di bue attorcigliato alla mano.
Dissero forte: «chi è l’ultimo arrivato?». Mi alzai in piedi e con voce sicura risposi : «sono io».
«Il maggiore ti vuole interrogare» , disse uno, «bada di non fare l’idiota, altrimenti sono nerbate e qualcosa di peggio se ci farai perdere tempo». Sforzandomi di mantenermi calmo, chiesi : «cosa vuole il maggiore da me?». «Lo imparerai quando sarai nel suo ufficio» mi risposero. Nell’ufficio vi erano diversi ufficiali, dei graduati, qualche scribacchino e dei piantoni che sgomberavano stoviglie; si capiva che avevano mangiato e bevuto. Per la siesta si divertivano a tormentare quei partigiani che capitavano fra le loro mani.
Tre banchi uso scrittoio formavano metà esagono; seduto al centro vi era il famoso maggiore Raspadori, in un altro scrittoio Berti Martino, ed altri ancora.
Mi fecero sedere al centro dell’ufficio; avevo davanti tutto l’apparato inquisitorio, alle mie spalle due tirapiedi, uno con il nervo e uno con un pezzo di corda in mano, di fianco il boia con una maschera antigas tappata, che, per magnanimità, doveva esser messa solamente tre volte in una sera!
Dopo aver tracannato un bicchier di vino il maggiore chiese a Berti chi ero. «È un comandante di formazione partigiana; una vecchia volpe, credo che per farlo parlare dovremo accarezzarlo per bene e fargli un buon contrappelo». Capii che mi avrebbero torturato. Cercai di farmi coraggio. Dovevo essere forte, perchè così erano stati i mille e mille compagni prima di me.
Il maggiore incominciò col chiedermi: «perché non hai risposto alle domande dei miei subalterni? Non pensare di fare altrettanto con me, perchè ho tre piatti speciali da farti assaggiare!» (i tre piatti consistevano nel nervo, la maschera e il ferro rovente).
Risposi che non mi ero rifiutato di parlare, ma non potevo dire cose che non sapevo. Di questa risposta «il tribunale» fu seccato, e quello del nervo in mano, facendomi annusare quell’arnese da tortura, mi disse «te l’ho detto di non fare l’idiota» . Poi voltandosi verso il Raspadori soggiunse: «comandante, se volete che incominci la danza, io sono già pronto». È ancora presto, disse il maggiore, prima voglio parlare con quell’individuo, poi, con un sorriso, aggiunse: «abbiamo del tempo fin che vogliamo per divertirci». Incominciò la nuova serie di minacce e di improperi; avrei preferito una revolverata e che fosse finita.
Erano in una decina e tutti mi facevano domande, cambiando in falso la mia risposta, tentando continuamente di farmi cadere in contraddizioni, provocandomi una confusione tale che mi sembrava di impazzire.
La sete mi seccava la gola, la luce era sempre più accecante. Ricordo che sentivo spesso il nome di Nerone, di Bolide, e di Napoli; pretendevano che li conoscessi e che sapessi il loro nome vero e proprio.
Dopo due ore circa di questo tormento, Berti Martino disse : «è ora di passare al coercitivo, e farlo cantare». Tutti fecero silenzio, anche il maggiore. Berti continuava ad interrogarmi, dicendomi: «per l’ultima volta ti dico di fare quei nomi che ti abbiamo chiesto, altrimenti vedrai che cosa ti succede».
Come meglio potei, perchè la sete mi aveva fatto venire la lingua grossa, gli dissi: «quando sono entrato nel vostro ufficio, ho creduto di trovarmi di fronte a dei gentiluomini in quanto vedo tutti voi degli altolocati nella gerarchia militare; ma se eseguirete le vostre minacce, dovrò convincermi che l’opinione che vi è sul vostro conto, corrisponde a verità» ; poi soggiunsi: «non ho altro da dirvi. Potete dare ordini di cominciare».
Si guardarono in viso meravigliati, poi Berti seccato disse : «ma basta con queste storie! sembra si sia noi dei fuori legge!». E rivolgendosi al maggiore continuò: «sono già stanco, facciamolo cantare!» . Stavano per spogliarmi e legarmi alla seggiola, quando improvvisamente si udì nel corridoio un fracasso tale che i «boia» si distrassero. Un piantone aprì la porta; due giovani con le mani legate al dorso, furono fatti entrare. Un tenente dei briganti andò verso lo scrittoio di Berti e disse: «li ho presi, sono quelli che hanno ucciso i tuoi fratelli». Berti diventò furente, fece gli occhi più verdi, prese il nervo dalle mani del milite e con quanta forza aveva colpì sul viso quei ragazzi; il più giovane barcollò; l’altro disse: «Non ho mai conosciuto i vostri fratelli». Li fecero spogliare. Legati a cavalcioni su una sedia furono battuti a nerbate, a sangue, contemporaneamente gli venivano chiesti dei nomi. Non parlarono.
Furono slegati, gli misero la maschera ermeticamente chiusa, poi, quando il colore della loro carne si fece di un rosso paonazzo gli fu tolta e per farli rinvenire gli gettavano dell’acqua fredda sul viso.
Per tre volte gli fu fatta l’operazione. Non parlarono. Poveri ragazzi; dopo un’altra inutile serie di domande ci portarono fuori, ci misero in una cella diversa. Non li ho mai più riveduti.
Io fui messo nella cella di prima; era già l’alba quando i miei compagni di cella mi chiesero cosa mi avevano fatto.
Dopo qualche giorno mi accorsi che in un angolo della stanza vi era una macchia color sanguigno. Chiesi che cosa era, mi fu detto che a un certo Mansueto a cui era stata spaccata la testa contro quello spigolo. Nella camera attigua alla nostra vi era la cella per i gappisti.
Avevamo levato una pietra e così potevamo comunicare fra di noi. Una notte sentii degli urli che non erano più urli ma rantoli morente. Levai la pietra per sentire cosa succedeva. Torturavano Guidi Ramon, un gappista. Lo avevano battuto a nerbate ed era svenuto. I boia ritenevano che simulasse; e per accertarsi dello svenimento, lo misero nudo e lo fecero sedere sopra un fornello elettrico acceso. Provai tanto orrore e dolore che piansi non so per quanto tempo. Dopo qualche giorno mi misero nella cella assieme ai gappisti. Fu allora che imparai a conoscere Ramon Guidi (« Stracchino ») che era stato così tremendamente torturato. Con impacchi di acqua fredda cercammo di alleviare il suo male,
finalmente dopo qualche giorno cominciava a star meglio. Fra le tante atrocità viste all’ingegneria, quella che più mi è rimasta impressa è stato il vedere, nell’ufficio dei capitano Pifferi, togliere le scarpe ad un partigiano perchè erano scarpe nuove militari; e per punizione, perchè non diceva dove le aveva prese, gli furono pestati i piedi con un paio di scarponi chiodati all’alpina.
Dopo 17 giorni di questa vita infernale fui portato al purgatorio, cioè nelle carceri di San Giovanni in Monte; ove seppi che ero stato deferito al Tribunale speciale di Bergamo, poi ancora al Tribunale straordinario militare di Milano.
La mattina del 18 aprile, quando le belve nazi-fasciste stavano caricandoci sui camion per portarci oltre il Po, io ed altri fortunati tagliammo la corda.

 

 

Sulle torture alla facoltà di ingegneria

Lettura consigliata:  Ingegneria in guerra. La Facoltà di Ingegneria di Bologna dalla RSI alla Ricostruzione

27 febbraio 2008  Autore: Renato Sasdelli (a cura di)

 

 

   
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